PRIMA PARTE
Il lavoro a termine “ pubblico ” e “ privato ”.
Origini, differenze e analogie, nonché prospettive in ambito nazionale e comunitario nella difficile epoca sociale del “ lavoro flessibile ”.
Da mero lavoro precario a possibile password per contemperare anche nel pubblico l’esigenza di un impiego stabile con quella dell’efficienza del sistema.
Un’interessante ed aggiornata comparazione tra il rapporto di lavoro a tempo determinato prestato alle dipendenze di un datore di lavoro privato e quello intrattenuto alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, così come delineato dalla giurisprudenza ( anche comunitaria ) e dalla dottrina ed ipotizzabile in una prospettiva pluridisciplinare e “ de iure condendo ”.
di
SERGIO SALVATORE MANCA
(Componente del Comitato Scientifico di LavoroPrevidenza.- Vice-Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Tempio Pausania ( SS ), attualmente presta servizio presso il Settore Legale, Contenzioso del Lavoro, della Sapienza - Università di Roma, ove è titolare di posizione organizzativa e di delega di rappresentanza esterna della medesima.Neo-vincitore di un concorso per Funzionario amministrativo bandito dal Ministero della Difesa, ha anche presieduto alcune commissioni di concorso.Autore di apprezzate pubblicazioni su riviste scientifiche giuridiche.)
INDICE
1. Il rapporto di lavoro alla dipendenze delle PP.AA. nell’ambito del sistema di diritto pubblico “ puro ” antecedente all’avvento della Costituzione della Repubblica Italiana.
1.1. Corollario di tale impostazione: l’attribuzione della giurisdizione sul rapporto di pubblico impiego in via
esclusiva al giudice amministrativo.
2. Il pubblico impiego nella prima fase post-repubblicana : il T.U. sugli impiegati civili dello Stato emanato con il D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3.
2.1. La mancata separazione tra ceto politico e ceto burocratico dirigenziale ed il conseguente effetto dell’impossibilità di individuare precise responsabilità in relazione agli atti amministrativi compiuti ed ai risultati raggiunti.
2.2. Descrizione, sul piano sociologico, delle conseguenze dell’utilizzo attuato negli anni del “ dopo-guerra ” dello strumento del pubblico impiego.
3. L’esigenza di applicazione dei principi di matrice privatistica dell’efficienza, dell’efficacia e della produttività alle PP.AA.
4. La – parziale – privatizzazione del pubblico impiego attuata nel 1983 : la comparsa, tra i doveri del pubblico impiegato, di quello di produttività.
5. La “ prima ” vera privatizzazione del pubblico impiego : il D. Lgs. n. 29 del 1993.
5.1. Sue origini storico-politiche.
5.2. Esplicazione pratica della “ prima ” privatizzazione del pubblico impiego : configurazione in termini privatistici
di questo fin dalla relativa incardinazione e separazione tra politica e amministrazione e, quindi, previsione di
una dirigenza effettivamente responsabile.
5.3. Il reclutamento delle risorse umane nell’ambito del pubblico impiego “ privatizzato ” nel 1993.
6. La “ seconda ” privatizzazione del lavoro pubblico avviata dalla legge n. 59 del 1997 ( prima “ Bassanini ” ).
6.1. L’introduzione di un sistema di controlli interni alla P.A. nell’ambito del secondo processo di ispirazione ai canoni privati dell’agire pubblico.
6.2. L’avvento della flessibilità
6.2.1. Le esigenze di imparzialità delle procedure selettive indette per soddisfare esigenze temporanee o, comunque, flessibili delle pubbliche amministrazioni.
6.3. La farraginosità del meccanismo di selezione del concorso pubblico.
6.4. La non necessaria equivalenza tra procedure selettive indette al fine di procedere ad assunzioni a tempo determinato e concorso pubblico.
6.5. Permane il principio del concorso pubblico per l’accesso a tempo indeterminato alla pubblica amministrazione.
7. Verso la “ terza ” privatizzazione ?
7.1. La legge delega ( c.d. Biagi ) n. 30 del 2003 e il D.Lgs. n. 276 del 2003 insistono sulla “ flessibilità ” nel rapporto di lavoro privato : applicabilità di alcuni istituti da loro previsti anche al lavoro pubblico.
7.2. La pubblica amministrazione e i nuovi lavori.
7.3. Prime valutazioni sociali e giuridiche negative della legge c.d. Biagi.
7.4. Gli estremismi, da un lato, del nuovo concetto di “ sicurezza del posto di lavoro ” enucleato da alcuni autori e dall’altro delle tesi che definiscono la flessibilità “ ipocrita ” e fonte della “ maledizione dell’incertezza ”.
8. La globalizzazione e il conseguente aumento della competizione comportano l’avvio di tentativi di riforma dell’amministrazione pubblica in tutti i paesi occidentali.
9. L’importanza della formazione del personale delle Pubbliche Amministrazioni.
La necessità di non disperdere – anche ai fini della formazione del personale più giovane - le conoscenze ed esperienze acquisite dai lavoratori anziani, e, pertanto, dal personale “ stabilizzato ”.
10. La sempre maggiore rilevanza attribuita alla “ Scienza dell’amministrazione ”.
11. L’affermarsi degli studi sulla motivazione del lavoratore.
12. La diversità delle politiche concernenti la pubblica amministrazione ed il relativo personale adottate nei paesi occidentali.
13. Le cause e le caratteristiche del “ necessario ” cambiamento in atto nella pubblica amministrazione italiana comuni alle misure di innovazione del pubblico adottate negli altri paesi europei.
14. Le difficoltà del cambiamento in atto nelle PP.AA. e le resistenze all’attuazione del medesimo.
14.1.
15. La transizione da un’amministarzione pubblica immobile, quasi più attenta all’autoalimentazione di se stessa, ad una
P.A. controllata nel proprio modus operandi e vigile sulla verifica funzionale di tale modus.
15.1. L’affermarsi dell’analisi per costi e benefici nella nuova “ scatola degli attrezzi ” della Pubblica Amministrazione.
15.2. La sempre maggiore attenzione prestata alle politiche di budgeting.
15.3. L’informatizzazione della Pubblica Amministrazione italiana.
15.4. Lo “ spoil system ”.
16. La flessibilità contribuisce all’affermarsi di un’amministrazione, anche nel pubblico, per obiettivi e risultati.
16.1. Flessibilità e efficienza.
16.2. Flessibilità e posti di lavoro.
17. I problemi sociali del lavoro stabile e della conservazione del posto di lavoro.
17.1.Gli effetti psicosociali dell’instabilità del lavoro.
17.2.La precarietà, se limitata alla prima parte della vita attiva del lavoratore, appare preferibile alla disoccupazione.
18. La tendenza nel pubblico impiego - socialmente apprezzabile e giuridicamente deprecabile - alla incardinazione di
rapporti di lavoro stabili, senza il rispetto della rigorosa selezione imposta dall’art. 97/3 Cost.
18.1 Procedure selettive per l’accesso temporaneo nelle PP.AA., concorso pubblico ex art. 97/3 Cost., loro
commistione, confusione e, talvolta, elusione.
19. L’importanza e necessità della coesione sociale.
19.1. Il rilievo in ambito comunitario della coesione sociale e il vertice di Lisbona del marzo 2000.
20. La necessità di ammortizzatori sociali per i lavoratori c.d. flessibili.
21. Le dimensioni raggiunte dal lavoro a termine nel pubblico e l’attuale quasi esclusiva instaurazione nel settore privato dei rapporti di lavoro ex novo attraverso il ricorso alle forme flessibili di impiego.
21.1. Il paradosso della precarietà nel lavoro pubblico tradizionalmente caratterizzato dalla relativa stabilità.
22. Esigenza di procedere ad un nuovo bilanciamento di interessi ugualmente rilevanti : efficienza e produttività
dell’azienda – anche - pubblica e garanzia del lavoro.
22.1. I termini del nuovo bilanciamento da ricercare.
23. La flessibilità nel pubblico impiego : da sinonimo solo di lavoro precario ad auspicata “ esperienza – in quanto
spendibile - da rivendere ”.
23.1. Rendere, realmente, incentivante il lavoro temporaneo anche per il lavoratore ( pure pubblico ) al quale la flessibilità viene richiesta.
23.2. L’auspicata interscambialità tra pubblico e privato delle esperienze professionali maturate e il precedente - con riferimento ai dirigenti - della legge n. 145 del 2002, c.d. Frattini.
23.3. Il lavoro flessibile quale “ formazione sul campo ” del lavoratore anche pubblico.
23.4. L’assenza di una garanzia espressa al lavoro stabile nella nostra carta costituzionale.
24. La necessità della previsione di un percorso verso la stabilità nell’interesse di entrambe le parti interessate dal
rapporto di pubblico impiego.
24.1. Evitare, nell’ottica della previsione di un percorso di stabilizzazione meritocratica-premiale, di ricorrere al lavoro a termine come politica di gestione del personale e, quindi, al precariato “ stabile ”.
24.2. La futura legislazione sul lavoro a termine pubblico quale auspicato meccanismo di feedback sull’efficienza del pubblico impiego.
25. Diritto pubblico e diritto privato nella regolamentazione del rapporto di pubblico impiego.
25.1. Discrasie conseguenti a siffatta disciplina ibrida.
25.2. Riscontrabilità di tali discrasie anche nella regolamentazione del rapporto di lavoro a termine pubblico.
26. L’impiego pubblico a termine quale lavoro flessibile di qualità, nonché fattispecie tipicamente interessata dai
fenomeni e dalle istanze di stabilizzazione. : necessità, in una prospettiva de jure condendo, di concentrare l’attenzione, tra le varie tipologie di lavoro flessibile, su di essa.
27. La necessità di adottare la disciplina del rapporto di lavoro a tempo determinato vigente nel settore privato quale base per una rimodulazione della regolamentazione del lavoro a termine pubblico.
28. L’attuale disciplina del rapporto di lavoro a termine privato : il D.Lgs. n. 368 del 2001 emanato in attauazione della
direttiva comunitaria 1999/70/CE.
28.1. La proroga del contratto a termine e i limiti in cui essa è consentita.
28.2. La successione di più contatti a termine e la relativa differenziazione rispetto alla proroga dei medesimi.
28.3. La prosecuzione di fatto del rapporto di lavoro a termine privato : definizione e limiti.
28.4. Le sanzioni previste dal D.Lgs. n. 368 del 2001 per i casi di illegittima proroga, prosecuzione di fatto o
successione di più contratti a termine.
28.4.1.La conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato prevista quale meccanismo sanzionatorio degli eventuali abusi nell’utilizzo dello strumento del contratto a termine.
28.5. Il diritto di precedenza di cui all’art. 10, comma 9, del D.Lgs. 368/2001 e le condizioni temporali e di tipologia
al rispetto delle quali la sua possibilità di previsione è subordinata.
29. Tratti comuni nella regolamentazione del rapporto di lavoro a termine privato e di quello prestato alle dipendenze di una pubblica amministrazione.
29.1. La – sostanziale – neutralità delle causali in presenza delle quali si può ricorrere al lavoro a tempo determinato.
30. Le principali differenze.
30.1. La sanzione, per gli eventuali abusi nell’utilizzo delle strumento del rapporto di lavoro a tempo determinato, della conversione del lavoro a termine in uno a tempo indeterminato prevista nel settore privato e non – allo stato attuale dell’interpretazione della normativa in materia – nel pubblico impiego.
30.1.1.L’art. 36/2 del D.Lgs. n. 165 del 2001 e lo scopo da esso perseguito.
30.1.2.Ispirazione ad una logica di tutela aziendale dell’impianto di diritto pubblico che prevede
l’inamissibilità della conversione con riferimento al pubblico impiego a termine.
30.1.3. Il segno del passaggio ad un’altra epoca e ad una visione efficientistica della macchina amministrativa pubblica : dalla tutela del solo lavoratore a quella “ anche ” della pubblica amministrazione, datore di lavoro.
30.2. Altra fondamentale differenza : la possibilità di conversione in un’ottica premiale dell’impiego a termine in
lavoro fisso consentita dal D.Lgs. 368/2001 e da ritenersi esclusa nell’ambito del pubblico impiego.
30.2.1.La conversione quale meccanismo premiale nel privato tra rischio di “ cannibalismo sociale ” e
competizione tra lavoratori a termine.
30.2.2. Garanzia della conversione quale sanzione contro i pericoli di “ cannibalismo sociale ” attuato da parte
del datore di lavoro privato.
30.3. Il rischio del precariato a lungo termine, comunque, insito nella previsione nel nostro ordinamento della tipologia del lavoro a tempo determinato quale modello non eccezionale.
31. L’impossibilità di una conversione a tempo indeterminato del pubblico impiego a termine sia quale effetto di un meccanismo sanzionatorio che come istituto di natura premiale.
31.1. La previsione nel pubblico impiego privatizzato del risarcimento del danno quale meccanismo sanzionatorio degli eventuali abusi nel ricorso al rapporto di lavoro a tempo determinato.
31.1.1. Il “ poco approfondito ” risarcimento del danno concretamente risarcibili al lavoratore a termine “ abusato ”.
31.1.2. I dubbi riguardo alla riconducibilità delle responsabilità ex art. 36/2 D.Lgs. n. 368/2001 a quella precontratuale.
31.2. L’ulteriore tutela riconosciuta ex art. 2126 c.c. dai giudici amministrativi al lavoratore impiegato nel pubblico in violazione di norme imperative.
31.3. La distanza tra la protezione assicurata dagli artt. 36/2 D.Lgs. n. 165/2001 e 2126 c.c. rispetto all’auspicata tutela della propria aspettativa di stabilizzazione percepita dal lavoratore a termine pubblico quale unica effettiva forma di garanzia del medesimo.
32. La permanente specialità del lavoro pubblico ancorché privatizzato e i fondamenti di essa individuati dalla Corte costituzionale.
33. I dubbi riguardo alla compatibilità con i parametri costituzionali del sistema che esclude la possibilità di conversione nel pubblico impiego.
33.1. Divieto di conversione previsto dall’art. 36/2 T.U. pubblico impiego e principi di eguaglianza e buon andamento della P.A. sanciti dagli artt. 3 e 97 della nostra carta costituzionale.
34. La ferma posizione assunta dal giudice delle leggi riguardo alla compatibilità con
34.1.I precedenti storici in materia di pubblico impiego a termine : le sentenza n. 40 del 1986.
34.2.La sentenza n. 89 del 2003 che ha dissipato i dubbi circa la compatibilità con gli artt. 3 e 97 Cost. del divieto di conversione nel pubblico impiego.
34.3.Principio del concorso pubblico per l’accesso ai ruoli a tempo indeterminato delle P.A. ed il limite della non manifesta irragionevolezza sancito dalla Corte Costituzionale riguardo alla possibilità di prevedere eccezioni ad esso.
34.3.1.Le eccezioni alla regola del pubblico concorso ritenute dal giudice delle leggi compatibili con la carta costituzionale.
34.4.
35. Le perplessità della letteratura giuridica minoritaria riguardo al sistema - ritenuto compatibile con la carta costituzionale - che prevede l’inapplicabilità al pubblico impiego della conversione-stabilizzazione del lavoro a termine.
35.1. Le tesi che argomenta a favore della conversione - anche – nel pubblico impiego dalla qualifica di elemento accidentale attribuita al termine nell’ambito della teoria negoziale del contratto di lavoro a tempo determinato privato.
35.2. Estrinsecazione e limiti della teoria che sostiene la superfluità del divieto di conversione-stabilizzazione una volta ammessa anche nel lavoro pubblico la possibilità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
35.3. Impossibilità di conversione nel pubblico impiego ed “ esistenza libera e dignitosa del lavoratore ” di cui all’art. 36 della Costituzione.
36. La posizione delle altre giurisdizioni in relazione al dato normativo – e al divieto di conversione – costituzionalmente legittimo secondo il giudice delle leggi.
36.1. La giustizia amministrativa : posizioni possibilistiche riguardo alla conversione affermatesi negli anni ’80 e loro definitivo superamento.
36.2. Le pronunce del giudice civile.
36.2.1.La suprema corte di Cassazione e il lavoro pubblico a termine.
36.2.2.La giurisprudenza di merito.
37. Inapplicabilità nel pubblico impiego della sanzione della conversione ex D. Lgs. n. 368/2001 e diritto comunitario.
37.1. Il tema del rapporto di lavoro a tempo determinato pubblico richiama i ragionamenti per “ massimi sistemi ” ( normativi ) concernenti la relazione tra “ primazia ” del diritto comunitario e “ principi fondamentali ” del nostro ordinamento.
37.2. I rinvii alla Corte di giustizia Europea da parte dei giudici di merito.
37.3. L’attesa pronuncia in materia della Corte di Giustizia Europea : la sentenza della Grande Sezione del 4 luglio 2006.
37.3.1. L’applicabilità anche al lavoro pubblico della direttiva 1999/70/CE rilevata dal giudice comunitario.
37.3.2. L’accordo quadro – trasposto nella direttiva, per il giudice comunitario, comunque – “ non stabilisce
un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei
contratti di lavoro a tempo determinato ”.
37.3.3.Conseguenze dell’esatta portata della direttiva 1999/70/CE, così come precisata dalla Corte di Giustizia
: compatibilità con il diritto comunitario della normativa nazionale che dovesse prevedere altri meccanismi
sanzionatori applicabili, con efficacia, in alternativa a quello della conversione del rapporto di lavoro a
termine.
37.3.4. Spetta al giudice nazionale – secondo il giudice comunitario – valutare l’effettività, efficacia e
proporzione dello strumento sanzionatorio alternativo alla conversione eventualmente previsto dall’ordinamento nazionale dello stato membro.
37.4.
37.5. Il paradosso per cui ritorna al giudice nazionale la decisione riguardo alla conformità all’ordinamento comunitario della normativa nazionale in materia di lavoro a tempo determinato e, pertanto, la valutazione circa il raggiungimento, nello stato membro italiano, del proprio “ effetto utile ” da parte della direttiva comunitaria 1999/70/CE.
37.6. Il contratto a tempo determinato e l’ordinamento comunitario : “ le fonti dell’accordo quadro riconoscono … che i contratti a tempo determinato rispondono, in alcune circostanze, alle esigenze sia dei datori di lavoro, sia dei lavoratori ”.
38. L’attuale disciplina del lavoro pubblico non affronta seriamente le istanze sociali di efficienza della P.A. e di lavoro stabile, ignorando le sue stesse potenzialità in materia di formazione nel pubblico impiego.
39. L’auspicato utilizzo del lavoro pubblico a tempo determinato al fine di soddisfare, contemperandole, le istanze sociali di “ stabilizzazione ” del lavoratore e di efficienza e produttività della P.A..
40. Principio del pubblico concorso e utilizzo in chiave premiale del rapporto di lavoro pubblico a tempo determinato.
40.1. Buon andamento della P.A. rispettato, sotto il profilo dell’accesso ai ruoli stabili della medesima, soltanto in caso di superamento di un pubblico concorso.
40.2. Identificazione tradizionale del pubblico concorso ex art. 97/3 Cost. con quello indetto per l’accesso in pianta stabile nella P.A. e procedure selettive bandite per sopperire a esigenze temporanee della macchina amministrativa pubblica – talvolta - particolarmente severe.
40.2.1. Opportunità di una maggiore valutazione in sede di accesso in pianta stabile nella P.A. dell’eventuale superamento di procedure per posti a tempo determinato particolarmente severe. Necessità di evitare l’adozione di una pericolosa nozione “ sostanziale ” di concorso pubblico.
41. L’interpretazione tradizionale del buon andamento della P.A. non pare tener conto dell’importanza per il conseguimento di tale obiettivo della motivazione del pubblico impiegato e dell’esperienza acquisita sul campo da questo.
42. L’esigenza di contenimento e razionalizzazione della spesa pubblica alla base della disciplina – di diversi istituti – del pubblico impiego e anche del ricorso – e dell’attuale disciplina – del lavoro a termine pubblico.
43. La rimodulazione del lavoro pubblico a tempo determinato dovrà continuare a tener conto delle esigenze di razionalizzazione della spesa pubblica, oltre che rispondere alle istanze - parimenti provenienti dalla società – di stabilizzazione e di maggiore efficienza della P.A.
44. Necessità di una funzionalizzazione del lavoro pubblico a termine alla soddisfazione delle varie – e non soltanto di alcune delle - istanze sociali di cui tale fattispecie contrattuale comporta la venuta in rilievo.
44.1. La dubbia legittimità costituzionale e l’inopportunità di “ sanatorie generalizzate ” : l’esigenza di adeguate selezioni per l’accesso a tempo indeterminato nella pubblica amministrazione.
45. Un percorso “ verso la stabilizzazione ” del lavoratore a termine che consenta nella sua articolazione, altresì, di dotare le PP.AA. di personale adeguatamente formato e, pertanto, capace di assicurare maggiore efficienza alle stesse, razionalizzando così la spesa pubblica.
46. Possibili configurazioni premiali del lavoro pubblico a termine : la previsione, negli accessi al pubblico impiego a tempo indeterminato, del servizio precedentemente presso
46.1. Altri possibili correttivi : esonero dalle eventuali prove preselettive previste per l’accesso ai ruoli a tempo indeterminato della P.A. del personale con una precedente – significativa dal punto di vista temporale – esperienza nel pubblico impiego.
46.2. Previsione di una preselezione per soli titoli nell’ambito dei quali valutare adeguatamente il precedente servizio prestato presso
46.3. La possibile previsione dell’obbligo della indizione di concorsi per posti a tempo indeterminato non solo per esami, ma anche necessariamente per titoli tra i quali valutare obbligatoriamente il precedente servizio a termine presso l’amministrazione pubblica.
46.4. Eventuale cumulatività e non alternatività di siffatti elementi incentivanti.
47. Altri scenari più difficoltosi di rimodulazione dello strumento del lavoro a termine pubblico.
47.1. I dubbi, alla luce del concorso “ pubblico ”, riguardo alla possibilità di procedure concorsuali “ riservate ” ai precari e la sentenza n. 205 del 2004.
48. Un’esempio concreto – però riferito al settore privato – di valorizzazione del lavoro a termine : la legge della regione Emilia Romagna n. 17 del 2005.
49. Alcune proposte de jure condendo.
49.1. Il disegno di legge n. 848-bis presentato nella XIV legislatura persegue la strada dell’incentivazione in via diretta alla sola impresa, preoccupandosi, con riferimento al lavoratore a termine, della previsione di adeguati ammortizzatori sociali.
49.2. Il contratto Temporaneo Limitato ( CTL ) delinea con riferimento all’impiego privato un percorso di accesso graduale al regime di stabilità.
50. Il lavoro a termine necessario strumento nell’attuale econonomia globalizzata nell’ambito della quale anche alla P.A. viene richiesto un agire – quanto meno, di tipo - imprenditoriale.
51. Conclusioni.
51.1. Necessario un cambio di mentalità che conduca a ritenere realmente “ l’efficienza ” della macchina statale un bene primario alla pari del diritto al lavoro costituzionalmente tutelato.
51.2. La speranza della trasformazione dei contratti flessibili di lavoro in effettivi ammortizzatori sia sociali che dell’esigenze di efficienza della P.A..
51.3. In ultima analisi : “ ripensare ” il lavoro pubblico.
52. Prospettive.
52.1. Cambio di “ sistema ” attraverso il passaggio ad un ordinamento non di diritto amministrativo ma paritario.
1. Il rapporto di lavoro alla dipendenze delle PP.AA. nell’ambito del sistema di diritto pubblico “ puro ” antecedente all’avvento della Costituzione della Repubblica Italiana.
Una delle riforme di struttura attuate nell’era Giolittiana[1] ebbe ad oggetto il rapporto di lavoro prestato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, che fino agli inizi del ventesimo secolo era disciplinato su base contrattuale.
E’, infatti, al T.U. n. 693 emanato il 22.11.1908 che si deve la prima definizione ( peraltro, traslata da quella datane dal Consiglio di Stato ) idonea ad enucleare lo stato giuridico “ pubblico ” degli impiegati civili dello Stato, successivamente fatta propria ed adottata anche dalla classe dirigente politica insediatasi nel nostro paese con l’avvento - all’inizio degli anni venti - di un regime politico caratterizzato da principi di accentuata autorità e da una costante presenza dello Stato nella società.
Tale “ regime ”, in particolare, delineò una disciplina per cui il rapporto di pubblico impiego risultava, tra l’altro, caratterizzato da un lato, dalla posizione di soggezione verso lo Stato che veniva, di fatto, imposta al dipendente pubblico e, dall’altro, dal “ potere ” che a quest’ultimo veniva riconosciuto all’esterno[2].
Invero, per effetto dei Regi Decreti nn. 1054–1058 adottati nel 1924 ( c.d. riforme “ De Stefani ” ) i pubblici impiegati vennero a dipendere dallo Stato non più in forza di un contratto di lavoro, ma sulla base della regolamentazione dettata da un ordinamento – in ogni sua manifestazione – speciale, interamente separato dal diritto comune e che trovava il proprio suggello nella attribuzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie in materia di lavoro pubblico.
La specialità di questo ordinamento consisteva, segnatamente, nel fatto di essere delineato e costituito da norme aventi la stessa matrice e impronta[3] di quelle che lo Stato utilizzava per raggiungere le proprie finalità e, pertanto, da norme di diritto amministrativo.
La finalità del medesimo sistema giuridico, invece, poteva essere individuata nella volontà dell’esecutivo di disporre di un corpo amministrativo “ sicuro ”, disponibile ad immedesimarsi con lo stesso ed impermeabile ad ogni segnale di conflittualità proveniente dall’esterno.
Sicché, appunto, in una simile ottica i rapporti di pubblico impiego erano gestiti prevalentemente mediante atti amministrativi.
Non solo, già la costituzione del rapporto di impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche avveniva sulla base di un provvedimento autoritativo adottato unilateralmente dalle medesime[4].
Pertanto, lo studio della materia del lavoro pubblico era sicuro appannaggio dei giuspubblicisti, pur dovendosi, comunque, rilevare che le regole del rapporto di pubblico impiego erano dettate da fonti pubblicistiche abilitate a recepire gli accordi e/o atti di concertazione eventualmente raggiunti tra la pubblica amministrazione e le rappresentanze dei dipendenti.
Trattavasi, in ogni caso, soltanto di abilitazione e non di necessità delle recezione di tali accordi, atteso che questi ultimi, anche qualora raggiunti, non acquisivano validità prima della relativa approvazione da parte del Consiglio dei Ministri che, nella pratica, rivoluzionava, nel primo periodo del “ regime ” autoritario dell’epoca, sulla scorta dei pareri ad esso forniti dal Consiglio di Stato, gli atti di “ negoziazione ”, riscrivendoli come riteneva più conveniente alla parte pubblica.
1.1. Corollario di tale impostazione: l’attribuzione della giurisdizione sul rapporto di pubblico impiego in via esclusiva al giudice amministrativo.
Come accennato, naturale conseguenza della configurazione del pubblico impiegato contemporaneamente quale prestatore d’opera alle dipendenze della P.A. e elemento essenziale di uffici esercenti potestà autoritative è stata l’attribuzione della giurisdizione nelle controversie che lo riguardavano ad un giudice speciale, qual’è quello amministrativo.
Mentre il fatto che la giurisdizione del giudice amministrativo fosse quella di tipo esclusivo discendeva dalla constatazione che in materia di pubblico impiego risultava – e risulta ancora oggi - talvolta difficile distinguere le ipotesi in cui venivano in rilievo interessi legittimi ( come ad esempio sicuramente accadeva al cospetto di atti organizzativi e di gestione del rapporto di impiego pubblico posti in essere nell’esercizio di potestà autoritative pubblicistiche ) da quelle nelle quali venivano a configurarsi diritti soggettivi ( quali, ad esempio, erano quelli di credito relativi alla corresponsione della retribuzione concernente il lavoro prestato ).
2. Il pubblico impiego nella prima fase post-repubblicana : il T.U. sugli impiegati civili dello Stato emanato con il D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3.
L’anomalia della contrattazione ( come tale bilaterale o plurilaterale ) recepita in un’atto unilaterale di una delle parti ( quella pubblica ) contraenti continua anche dopo l’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica italiana.
Così come continua la visione centralistica ed unilaterale ( da parte del soggetto giuridico pubblico ) della Pubblica Amministrazione precedentemente introdotta[5].
Invero, il Testo unico degli impiegati civili dello Stato emanato attraverso il D.P.R. 10 gennaio 1957 n.
Tale Testo Unico, difatti, principalmente e fondamentalmente, ha proceduto ad una nuova organizzazione dei pubblici dipendenti attraverso l’articolazione del loro percorso professionale in quattro diverse carriere ( ausiliaria, esecutiva, di concetto e direttiva )[6].
2.1. La mancata separazione tra ceto politico e ceto burocratico dirigenziale ed il conseguente effetto dell’impossibilità di individuare precise responsabilità in relazione agli atti amministrativi compiuti ed ai risultati raggiunti.
Assai limitata risultava per i dirigenti pubblici, anche dopo l’introduzione del nuovo ordinamento delineato dal Testo Unico del 1957, la facoltà di delegare ai funzionari intermedi della scala gerarchica la potestà di emanare atti a rilevanza esterna[7].
Questo quanto meno fino all’emanazione del D.P.R. 30 giugno 1972 n. 748 sulla Dirigenza Pubblica, il quale procedette ad una prima riqualificazione del ceto dirigenziale pubblico, riconoscendo ad esso ulteriori – rispetto a quelle già previste - prerogative e la possibilità-capacità di imprimere all’amministrazione pubblica uno stile ed un’efficienza di tipo manageriale sulla falsariga di quelle invalse nel mondo del lavoro privato.
Tuttavia, tale nuova possibilità di azione veniva frustrata dal rapporto gerarchico che, per i dirigenti pubblici, permaneva rispetto al ceto politico, nonostante la nuova Carta Costituzionale, attraverso il proprio art. 97, lasciasse, sostanzialmente, aperta la strada sia alla previsione di un regime strettamente pubblicistico del pubblico impiego, sia ad una regolamentazione del medesimo su base – e di natura – contrattuale, pur con il limite del necessario acceso ai ruoli della P.A. per concorso pubblico.
Ciò, probabilmente, avvenne anche a causa del contesto sociale che caratterizzò gli anni del “ dopo-guerra ” e del modello del Welfare State che, anche nel nostro paese, venne ad essere adottato nell’organizzazione dei pubblici poteri.
Tali fattori, invero, con ogni probabilità, portarono, da un lato, a mantenere forte l’impronta statalista della società italiana e, dall’altro, ad evitare l’estendersi al pubblico impiego dello scontro – dai caratteri forti – sociale e sindacale negli anni settanta in atto.
2.2. Descrizione, sul piano sociologico, delle conseguenze dell’utilizzo attuato negli anni del “ dopo-guerra ” dello strumento del pubblico impiego.
La finalità di “ Welfare ” attribuita all’organizzazione statale italiana nel “ dopo-guerra ” e l’esigenza di escludere – il più possibile – il lavoro pubblico dalle battaglie sociali, soprattutto, negli anni ’70 condussero ad un’accentuazione del ruolo di volano occupazionale attribuito al pubblico impiego nell’ambito di un modello di Welfare State.
Tale accentuazione finì, sovente, con il ridurre a siffatto ruolo la finalità del lavoro pubblico e a far assumere a questo caratteristiche quasi esclusivamente clientelari.
Invero, non si può tacere il fatto che spesso, in passato, l’impiego pubblico è stato utilizzato quasi esclusivamente come strumento per creare occupazione, sia pure - altrettanto frequentemente - per scopi socialmente rilevanti, quali, ad esempio, nelle aree economicamente meno sviluppate quello di creare sviluppo economico e, quindi, capacità di consumo e, inoltre, il fine di ridurre condizioni sociali di povertà e degrado sulle quali, peraltro, potevano facilmente innestarsi fenomeni di criminalità, o, comunque, di conflitto.
Queste avvenne fino ad arrivare nelle ipotesi più deteriori quasi ad un’inversione dei termini del rapporto logico tra bisogni e fabbisogni di personale, conducendo, talvolta, alla preventiva ( rispetto a quella del fabbisogno ) individuazione del numero dei lavoratori da impegare e ad una legislazione improntata all’ipergarantismo verso i pubblici impiegati indipendentemente dagli effettivi meriti.
Per alcuni decenni, invero, la pubblica amministrazione è stata considerata dalla classe politica quasi esclusivamente un calmiere della disoccupazione, specie nel Mezzogiorno[8].
3. L’esigenza di applicazione dei principi di matrice privatistica dell’efficienza, dell’efficacia e della produttività alle PP.AA.
Tuttavia, il riconoscimento di una finalità di welfare all’apparato statale del nostro paese delineava e richiedeva anche l’avvento di una pubblica amministrazione-struttura erogatrice di servizi pubblici a favore della collettività – e come tale efficiente, efficace e produttiva - e non più solo braccio burocratico del potere autoritario pubblico.
4. La – parziale – privatizzazione del pubblico impiego attuata nel 1983 : la comparsa, tra i doveri del pubblico impiegato, di quello di produttività.
La legge quadro sul pubblico impiego n. 93 del 29 marzo 1983 espresse l’esigenza di recepire nell’ambito del rapporto di impiego pubblico alcuni principi di carattere privatistico, quali, in particolare quello della contrattualizzazione – collettiva - nella regolamentazione della prestazione lavorativa ed il principio della produttività del lavoro pubblico.
Ambizione di tale legge fu – appunto – innanzitutto quella di stimolare la riforma dell’organizzazione amministrativa attraverso la negoziazione collettiva ( ossia “ sotto un unico tetto ” ) delle condizioni di lavoro del personale pubblico fino ad allora regolamentate da normative settoriali, spesso, anche molto distinte fra di loro.
La previsione di una legge quadro, però, rappresentò anche la cristallizzazione ( appunto, a livello legislativo ) della necessità di provvedere ad un ammodernamento della P.A., volto al raggiungimento della triade di obiettivi dell’efficacia, efficienza e produttività di essa, oltre che ad una revisione delle politiche di spesa pubblica, considerata la decurtazione significativa che le risorse economiche pubbliche subirono nei primi anni ottanta a causa delle tecniche di deficit spendig fino ad allora attuate.
Di qui, appunto, la legge-quadro del 1983 contenente tali – nuovi, per l’epoca – principi fondamentali in materia di relazioni sindacali e vera e propria “ pietra miliare ” per l’avvio dei processi di cambiamento dell amministrazione pubblica, nonostante – la medesima legge - avesse risentito, nei suoi contenuti ed effetti, inevitabilmente dei forti e contrapposti interessi e condizionamenti rappresentati, durante la fase della sua gestazione, dai protagonisti della vicenda che andava a disciplinare.
Purtroppo, anche a tale riguardo, la storia si è incaricata di dimostrare che il pur lodevole tentativo dal legislatore così attuato, non riuscì, di fatto, a raggiungere il proprio obiettivo ( di ammodernamento della Pubblica Amministrazione ), introducendo, piuttosto, elementi di consociativismo ( inteso nel senso deteriore del termine ) che hanno reso difficile la distinzione dei ruoli tra i soggetti pubblici e quelli sindacali coinvolti nel processo e, quindi, l’individuazione delle responsabilità per l’eventuale mancato raggiungimento degli obiettivi di efficienza, efficacia e produttività programmati.
Tale – sostanziale – fallimento venne agevolato anche dal fatto che la legge-quadro del 1983 continuava a prevedere, pur a fronte dei meccanismi di contrattazione collettiva - e, quindi, plurilaterale – da essa introdotti, la possibilità di entrata in vigore delle determinazioni da questa ( contrattazione ) eventualmente raggiunte soltanto a seguito del loro recepimento in un provvedimento di tipo pubblicistico cristallizzato, al momento dell’adozione, sotto forma di Decreto del Presidente della Repubblica.
In realtà, il vero risultato raggiunto dalla legge-quadro n. 93 del 1983 pare essere stato quello di fornire – anche se in termini negativi – un’esperienza su cui successivamente costruire un reale processo di privatizzazione del pubblico impiego[9].
5. La “ prima ” vera privatizzazione del pubblico impiego : il D.Lgs. n. 29 del 1993.
Nella realtà l’avvio di un significativo processo di privatizzazione del pubblico impiego si è concretamente verificato soltanto a seguito dell’emanazione nel 1993 del D.Lgs. n. 29 recante “ Norme in materia di razionalizzazione dell’organizzazione dell’amministrazione e revisione della disciplina del pubblico impiego ”.
Invero, solo attraverso l’adozione di tale testo normativo il legislatore è riuscito a riformare strutturalmente, privatizzandolo, il lavoro prestato alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, dopo i precedenti menzionati tentativi che comunque avevano contribuito a ridurne la distanza e le differenze rispetto all’impiego “ privato ”.
5.1. Sue origini storico-politiche.
Un reale processo di privatizzazione del lavoro pubblico si rendeva necessario anche a seguito della diffusa constatazione della farraginosità, sul piano pratico, del funzionamento del sistema di regolamentazione dei rapporti di lavoro pubblico discendente dalla legge-quadro del 1983[10].
Ciò soprattutto a causa della lentezza nello svolgimento delle trattative e dei ritardi con i quali il Governo provvedeva a emanare i decreti di recepimento degli accordi collettivi così, già a fatica, raggiunti.
I tempi della privatizzazione subirono un’accellerazione all’inizio degli anni ’90 a seguito di alcuni eventi che interessarono, sotto un profilo più generale, le scelte della politica italiana.
Tali eventi possono individuarsi, innanzitutto, nella stipulazione del Trattato di Maastricht che, invero, ha impresso nuovi imput non solo al cammino dell’integrazione europea, ma anche all’amministrazione pubblica dei vari paesi determinandone la necessità di adeguarsi, in maniera ancora più pregnante, agli standards di livello europeo[11].
Poi vennero in rilievo alcuni eventi contingenti : quali, innanzitutto, il manifestarsi, in modo sempre più chiaro, della crisi del sistema politico-partitico che per più di quarant’anni aveva governato la società italiana e spesso - come accennato – utilizzato in modo clientelare il pubblico impiego.
Inoltre, sempre maggiormente avvertite erano le preoccupazioni legate al minaccioso espandersi del debito pubblico e alla debolezza della lira, oggetto, peraltro, di una crisi valutaria nell’estate 1992.
A ciò si aggiunsero le inchieste giudiziarie che hanno reso evidente un sistema di corruzione ( la c.d. “ tangentopoli ” ) che, seppur ramificato sopratutto negli apparati pubblici politici, si ripercuoteva anche sull’efficienza del lavoro pubblico a causa dell’eccessiva invadenza in materia della classe politica, in un’epoca in cui, come detto, non ancora netta era la separazione tra attività ( politica ) di indirizzo e attività ( dirigenziale ) di raggiungimento degli obiettivi e, più in generale, di gestione.
Invero, è in questo contesto[12] che il Governo Amato ha presentato nel 1992 al Parlamento la richiesta di quattro maxi-deleghe legislative, una delle quali avente ad oggetto la ( incisiva ) riforma del pubblico impiego.
Quest’ultima delega, in particolare, è stata conferita al Governo attraverso la legge 23 ottobre 1992 n. 421, al cui art. 2, comma 1, lett. a), si legge che oggetto di essa è la riforma dei rapporti di impiego dei prestatori di lavoro degli enti pubblici affinché essi “ siano ricondotti sotto la disciplina del diritto civile e … regolati mediante contratti individuali e collettivi ”.
5.2. Esplicazione pratica della “ prima ” privatizzazione del pubblico impiego : configurazione in termini privatistici di questo fin dalla relativa incardinazione e separazione tra politica e amministrazione e, quindi, previsione di una dirigenza effettivamente responsabile.
La riforma del rapporto di pubblico impiego in questione è avvenuta attraverso l’emanazione del D.Lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, il quale ha dettato una disciplina operativa che ha segnato l’inizio di una rivoluzione anche culturale nell’organizzazione di ciascun ente pubblico[13], avendo tale decreto un’ambito applicativo, di fatto, generale, atteso che nella disciplina dettata dal relativo art. 2 rientrano – praticamente – tutte le organizzazioni pubbliche.
Siffatta rivoluzione è avvenuta attraverso l’introduzione di principi che, invero, denotano un effettivo “ cambiamento di rotta ”, oltre ad inquadrarsi - dandovi ulteriore attuazione – in quell ottica privatistica ed efficientistica di gestione delle PP.AA. auspicata già dalla menzionata riforma della Dirigenza pubblica attuata nel 1972.
Si tratta, ad esempio e innanzitutto, del principio della distinzione tra competenze di indirizzo e controllo riservate agli organi di vertice della P.A. e competenze gestionali e attuative delle direttive di ordine generale attribuite, appunto, per effetto di tale D. Lgs. in via esclusiva, alla Dirigenza.
Ma è soprattutto già nell’origine del rapporto di lavoro pubblico che si rinviene traccia della “ privatizzazione ” attuata dal D. Lgs. n. 29 del 1993.
Infatti, a seguito dell’emanazione di siffatto provvedimento legislativo il lavoro pubblico viene privatizzato “ ab initio ”, come, d’altronde, vuole la logica di un rapporto che si intende informare, appunto, a canoni privatistici, sia pure temperati da alcuni caratteri di specialità.
Sicché, mentre in un regime puramente pubblicistico – quale era quello precedentemente vigente - il rapporto di pubblico impiego nasceva in base ad un provvedimento unilaterale della P.A. nel nuovo sistema regolamentato, salvo le eccezioni che si diranno, dal diritto privato il rapporto d’impiego dei lavoratori pubblici viene a costituirsi per il tramite della sottoscrizione da parte dei medesimi di un contratto individuale di lavoro, assoggettato, anche nella sua concreta vigenza, alla disciplina dettata dalle norme del codice civile e dalle leggi sul rapporto di lavoro subordinato nell’impresa, oltre che dallo “ Statuto dei Lavoratori ”.
Tuttavia ciò non avviene con riferimento a quelle categorie di dipendenti pubblici, che, ai sensi dell’art. 2, comma 4, del D.Lgs. n. 29/93 “ rimangono disciplinati dai rispettivi ordinamenti ” : vale a dire Magistrati, Avvocati dello Stato, Docenti Universitari, Diplomatici, Militari, appartenenti alle Forze dell’ordine e dipendenti delle Autorità Amministrative Indipendenti, per questo, appunto, detti “ non contrattualizzati ”.
Resto, inoltre, fermo l’assoggettamento dei dipendenti pubblici privatizzati ad una disciplina di carattere non privatistico con riferimento alla fase antecedente all’instaurazione del relativo rapporto, essendo rimasta regolamentata dal diritto amministrativo l’individuazione-scelta del dipendente pubblico.
5.2.1. Il reclutamento delle risorse umane nell’ambito del pubblico impiego “ privatizzato ” nel 1993.
Gli artt. 36 e 38 del D.Lgs. n. 29/93, già nella loro originale formulazione, enunciarono in materia di reclutamento dei pubblici impiegati alcuni principi fondamentali cui, ancora allo stato, devono attenersi le amministrazioni pubbliche al fine di procedere ad una scelta efficace ed efficiente delle proprie risorse umane.
Tali principi sono, innanzitutto, quello dell’adeguata pubblicità della selezione a tale scopo eventualmente indetta, il principio della previsione di modalità di svolgimento di questa che ne garantiscano l’imparzialità, oltre che l’economicità e celerità, e quello dell’adozione, nell’espletamento della selezione, di meccanismi oggettivi e trasparenti, idonei a verificare il possesso dei requisiti attitudinali e professionali richiesti in relazione alla posizione da ricoprire.
Inoltre, in proposito, viene in rilievo il principio del rispetto delle pari opportunità tra lavoratrici e lavoratori e quello della composizione delle Commissioni giudicatrici esclusivamente attraverso il ricorso ad esperti di provata competenza scelti all’esterno dell’amministrazione pubblica interessata e con esclusione dei rappresentanti sindacali o delle associazioni professionali.
Questo sempre al fine di un agire imparziale in materia di reclutamento del personale pubblico, attraverso l’eliminazione di ogni possibile contaminazione nella scelta dei Commissari.
Infine, resta ferma anche nell’ambito del lavoro pubblico riformato nel 1993, la regola dell’accesso ai ruoli a tempo indeterminato della Pubblica Amministrazione tramite concorso pubblico, salvo le eccezioni previste dalla legge.
Ciò, nonostante il D.Lgs. n. 29 del 1993 abbia abrogato l’art. 20 della menzionata legge-quadro sul pubblico impiego del 1983, il quale stabiliva l’obbligatorietà del concorso pubblico, definendolo, altresì, quale finalizzato alla “ valutazione obiettiva del merito del candidato, accertato mediante l’esame dei titoli e/o prove selettive oppure per mezzo di corsi selettivi di reclutamento e formazione a contenuto teorico pratico volti all’acquisizione della professionalità richiesta per la qualifica cui inerisce l’assunzione ”.
Obbligatorietà, peraltro, già sancita a livello di normativa primaria e in ossequio al dettato dell’art. 97 Cost., dal T.U. per gli impiegati civili dello Stato del 1957, che, invero, precisava come, salvo le eccezioni ivi previste, l’accesso ai ruoli delle pubbliche amministrazioni senza concorso doveva ritenersi nullo e non produttivo di alcun effetto a carico delle medesime, ferma restando la responsabilità di chi l’avesse consentita.
Infatti, pur non prevedendo tale principio espressamente, la privatizzazione operata nel 1993, per concorde opinione, lo ha ribadito implicitamente attraverso la previsione al relativo art. 36 di tre distinti – e deve ritenersi indicati in ordine di priorità – modelli di reclutamento :
- procedure di selezione, conformi ai principi menzionati, volte all’accertamento della professionalità richiesta ( lett. a del comma 1 di tale articolo );
- avviamento dalle liste di collocamento per qualifiche e profili di livello inferiore ( lett. b);
- ricorso alla chiamata numerica dalle apposite liste di collocamento delle categorie protette ( comma 2 dell’art. 36 ).
Minoritaria è infatti la letteratura giuridica che ritiene che le procedure selettive di cui alla lettera a) del primo comma dell’art. 36 non si riferiscano, qualora volte a consentire l’accesso in pianta stabile alla P.A., esclusivamente a quelle concorsuali idonee al raggiungimento dei principi del “ buon andamento ” e “ dell’imparzialità ” di cui all’art. 97 Cost.
Imparzialità, in particolare, nel caso specifico da interpretarsi nel senso che per soddisfarla occorra procedere all’adozione di meccanismi di selezione tecnica neutrale dei più capaci.
Ciò anche considerato il fatto che, come più volte e anche di recente rilevato dal giudice delle leggi[14], il terzo comma dell’art. 97 della Costituzione che sancisce il principio del concorso pubblico deve essere posto in relazione con il successivo ( articolo 98 ) che pone i pubblici impiegati al servizio esclusivo della Nazione.
Dunque, il principio del concorso pubblico o - in caso di impiego “ a tempo ” presso le PP.AA. - delle procedure paraconcorsuali, vale, in materia di reclutamento degli impiegati pubblici, salvo le eccezioni tassativamente stabilite dalla legge.
Tali eccezioni, sul piano pratico, potevano e possono ( essendo le previsioni normative al riguardo previste dal D.Lgs. n. 29/1993 confluite nell’attuale T.U. sul pubblico impiego di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001 ) essere individuate in quegli strumenti diversi dal concorso o dalle procedure selettive paraconcorsuali che le PP.AA. hanno facoltà a tal fine di utilizzare a seconda della qualità delle risorse umane da reperire e delle circostanze organizzative che determinano, per esse, la necessità di provvedere alla provvista di tali nuove risorse.
Si tratta delle ipotesi – implicitamente già menzionate quando si è fatto riferimento ai modelli di reclutamento del personale pubblico previsti dalla lettera b) del primo comma dell’art. 36 del D.Lgs. n. 29 del 1993 e dal secondo comma di tale articolo - per cui per le proprie esigenze manifestantisi in relazione alle qualifiche e ai profili per i quali è richiesto il solo requisito della scuola dell obbligo, le pubbliche amministrazioni posso ricorrere all’avviamento al lavoro degli iscritti nelle liste di collocamento ai sensi della normativa vigente.
Ciò, anche in considerazione dell’onerosità tipica dello strumento concorsuale, che - deve ritenersi – già al Legislatore è apparsa eccessiva a fronte di impieghi richiedenti bassa capacità professionale.
Oppure si tratta dei casi in cui, ai sensi della normativa vigente, le PP.AA. hanno facoltà di procedere alla chiamata diretta nominativa del coniuge e/o dei figli del personale delle Forze Armate e delle Forze dell’Ordine, del Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco e della Polizia Municipale deceduto nell’espletamento del servizio, nonché dei prossimi congiunti delle vittime del terrorismo e di fatti di criminalità organizzata.
6. La “ seconda ” privatizzazione del lavoro pubblico avviata dalla legge n. 59 del 1997 ( “ prima Bassanini ” ).
Un’ulteriore “ vera ” privatizzazione del lavoro pubblico è avvenuta in base ad una seconda legge delega intervenuta in materia di riforma “ generale ” della pubblica amministrazione, la n. 59 del 1997 ( meglio nota come “ prima Bassanini ” dal nome dell’allora Ministro per
E’, infatti, in attuazione di essa che sono stati emanati i tre decreti legislativi n. 396 del 1997, n. 80 del 1998 e n. 387 del 1998, tutti intervenuti a modifica ed integrazione di quello n. 29 del 1993 e, allo stato, confluiti nel D. Lgs. n. 165 del 2001 recante “ Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche ” ( c.d. T.U. sul pubblico impiego ).
Sottese a tale nuova privatizzazione vi erano varie ragioni, non ultima quella di rendere ancora più veloce il processo di avvicinamento della P.A. agli ormai – anche se soltanto sotto il profilo del relativo riconoscimento in linea astratta - tradizionali canoni di efficienza ed economicità dell’agire amministrativo pubblico.
Canoni, questi, che già negli anni ’90 rendevano sempre più difficile sostenere quelle politiche di “ volano occupazionale ” in materia di pubblico impiego, che, ora, in un contesto di sempre maggiore competizione tra varie aree geografiche caratterizzate – economicamente – dalla c.d. globalizzazione e - giuridicamente – dall’integrazione sopranazionale, appare assai arduo perseguire[16].
L’intervenuta globalizzazione dell’economia appena menzionata, invero, ha implicato, con il suo corollario dell’avvenuto aumento della competizione tra le imprese, l’esigenza – recepita e di cui si sono fatte carico le riforme degli anni ’90 – di un mutamento della mission dell’amministrazione pubblica.
Ciò ha implicato e continua ad implicare, tra l’altro, la necessità del passaggio da una pianta organica “ tradizionalmente ” stabile e non direttamente correlata all’effettivo conseguimento di determinati obiettivi – sia pur in linea astratta, comunque - previsti ad una dotazione organica funzionalizzata alle varie esigenze - anche temporali – della specifica pubblica amministrazione che così viene in rilievo.
Pertanto, le PP.AA. sono venute a trovarsi di fronte all’esigenza di innovare la propria organizzazione, rendendola più snella e flessibile.
In particolare, la direzione del cambiamento è stata individuata in uno studio dell’OCSE[17], nella creazione di un’amministrazione pubblica più efficace, meno costosa e capace di rispondere meglio alle esigenze di realtà sociali, economiche e - anche - giuridiche in continuo mutamento e che tendono a farsi sempre più complesse e frammentate.
Per tentare di dare “ nel concreto ” risposte a queste nuove cristallizzate esigenze è stato, di fatto, avviato un trend di riforme tuttora in corso, nell’ambito del quale si colloca pure la previsione e introduzione – sia a livello di contrattazione collettiva che sul piano di quella decentrata - di sistemi retributivi non collegati in modo meccanicistico al modello gerarchico, ma, piuttosto, maggiormente focalizzati sul contributo dato al raggiungimento degli obiettivi del cui conseguimento si fa carico la pubblica amministrazione.
Si pensi al riguardo, a titolo esemplificativo, ai c.d. incentivi o alle varie indennità che possono essere riconosciute, a prescindere dalla relativa fascia di inquadramento, ai lavoratori pubblici sui quali si incentra, sempre a titolo di esempio, la responsabilità di uno o più determinati procedimenti amministrativi.
6.1. L’introduzione di un sistema di controlli interni alla P.A. nell’ambito del secondo processo di ispirazione ai canoni privati dell’agire pubblico.
Manifestazione di questo trend avente ad oggetto il continuo perseguimento, nel corso dell’agire amministrativo pubblico, di una sempre maggiore efficienza ed economicità è stato anche il riordino, nonché potenziamento, attuato da parte del D.Lgs. n. 286 del 1999, del sistema dei controlli gestionali interni ( alla P.A. ).
Vale a dire di quei meccanismi, c.d. ( anche con riferimento alla loro applicazione in ambito privato ) di internal auditing, aventi ad oggetto la verifica, attuata all’interno della stessa P.A. che così viene in rilievo, dell’attuazione, da parte di chi ne ha la responsabilità, dei programmi ed indirizzi dalla medesima perseguiti al fine di impedire un utilizzo, appunto, incontrollato delle risorse pubbliche.
Utilizzo, questo, che peraltro, potrebbe anche comportare l’illegittimità dell’azione giuridico-amministrativa nell’ambito della quale esso avviene, attesa l’avvenuta cristallizzazione tra i canoni di legalità dell’agire pubblico del valore dell’economicità da parte dell’art. 1 della legge n. 241 del 1990[18].
Il riordino attuato nel
- il controllo interno di regolarità amministrativa e contabile dell’azione amministrativa;
2.- quello avente ad oggetto la gestione, efficienza ed efficacia della medesima;
3.- la valutazione da compiersi sul rendimento dei dirigenti;
4.- il controllo strategico da effettuarsi sull’amministrazione in relazione agli obiettivi finali prefissati in sede politica.
Lo stesso riordino ha inteso anche garantire l’autonomia di tali quattro diversi livelli di misurazione della performance, prevedendone l’attribuzione ad organi ( si pensi, ad esempio, ai nuclei di valutazione e ai servizi ispettivi ) diversi, pur assicurando nel contempo adeguate forme di collegamento e coordinamento[19].
6.2. L’avvento della flessibilità.
Soprattutto però – per quel che qui interessa – ad inserirsi nel contesto menzionato è la definitiva introduzione, in materia di impiego delle relative risorse umane da parte della P.A., dei vari meccanismi – anche normativi – tipici del lavoro privato[20].
Ciò è avvenuto, in particolare, sulla base della previsione di cui al comma 7 dell’art. 22 del D. Lgs. n. 80 del 1998, il quale ha stabilito che “ le pubbliche amministrazioni … si avvalgono delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell impresa. I contratti collettivi nazionali provvedono a disciplinare la materia dei contratti a tempo determinato, dei contratti di formazione e lavoro, degli altri rapporti formativi e della fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo, in applicazione di quanto previsto dalla legge 18 aprile 1962, n. 230 …” e delle altre che prevedono limiti in materia.
Tra questi – limiti - viene in rilievo, innanzitutto, quello previsto dallo stesso art. 22 al comma seguente ( l’ottavo ) che espressamente prevede che “ in ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l assunzione o l impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni ”.
Tale normativa, invero, ha allargato le maglie della possibilità ( prima prevista - anche sulla base delle previsioni dei C.C.N.L. dei singoli comparti - soltanto in presenza di circostanze eccezionali o di carichi di lavoro congiunturali impossibili da fronteggiare con il personale in servizio ) di ricorso da parte delle amministrazioni pubbliche all’utilizzo di personale reclutato mediante :
- contratti a tempo determinato, stipulati al termine di selezioni aperte a tutti e sottoposte a pubblicità almeno in ambito locale;
- contratti di fornitura di lavoro temporaneo ( c.d. interinale ) ex legge 196 del 1997;
- contratti di formazione e lavoro.
E tale tendenza all’allargamento – nell’utilizzo degli strumenti flessibili – è proseguita con la legge n. 448 del 1998 - collegata alla Finanziaria per l’anno 1999 - che ha imposto alle PP.AA. il ricorso ai contratti part-time o di formazione e lavoro in una misura non inferiore al 25% delle nuove risorse umane ad esse necessarie nel corso del biennio 1998-1999.
6.2.1. Le esigenze di imparzialità delle procedure selettive indette per soddisfare esigenze temporanee o, comunque, flessibili delle pubbliche amministrazioni.
Tuttavia un elemento di specialità – e, si potrebbe dire, di “ stabilità ” con riferimento a quanto previsto dalla precedente normativa – permane anche nell’ambito della “ seconda privatizzazione ” del pubblico impiego.
Si tratta dell’obbligo per le PP.AA. di rispettare nella scelta del lavoratore ( futuro contraente del “ patto di lavoro ” ) le modalità fissate per il reclutamento del proprio personale dal menzionato art. 36 del D. Lgs. n. 29/1993 già nella sua formulazione antecedente a quella derivata dalla relativa sostituzione operata dall’art. 22 del D. Lgs. n. 80/1998 menzionato.
Vale a dire quelle – modalità – volte, come detto, a garantire l’imparzialità e la capacità di selezione dei migliori tra i candidati al pubblico impiego in possesso dei requisiti richiesti in relazione alla posizione da ricoprire.
6.3. La farraginosità del meccanismo di selezione del concorso pubblico.
Il ricorso, talvolta effettuato da parte delle PP.AA., per soddisfare proprie esigenze temporanee di personale ad una procedura selettiva in toto uguale a quella dei pubblici concorsi ha determinato ( a causa delle lungaggini ad essa connesse ) il rischio – più volte evidenziato anche dalla più attenta dottrina[21] e in alcuni ipotesi concretizzatosi - di un risultato quasi paradossale.
Infatti, la rigidità, la lentezza e le complicazioni formali tipiche del concorso pubblico e delle regole che lo governano, in taluni casi, hanno finito con il determinare tempi di svolgimento delle procedure di selezione del personale a termine del tutto prossimi a quelli del “ vero e proprio ” concorso pubblico e, pertanto, hanno determinato la frustrazione delle finalità temporali contingenti per le quali tali selezioni erano state indette.
Il che, tuttavia, occorre osservare non sempre è accaduto.
Infatti, talvolta – ed in maniera ( si potrebbe dire ) lungimirante – le amministrazioni pubbliche ricorrono a procedure selettive preventive, in modo da dotarsi di liste di personale alle quali, all’occorrenza, attingere per le proprie esigenze di personale a tempo determinato.
E’ quanto succede, ad esempio, presso gli enti del comparto regioni–autonomie locali per effetto della prassi – ivi consolidatasi – che prevede l’effettuazione delle selezioni degli aspiranti a profili professionali medio-bassi[22], appunto, con congruo anticipo, in modo da definire in via preventiva una graduatoria di candidati idonei all’espletamento delle diverse mansioni attinenti ai medesimi profili che così vengono in rilievo.
Lo stesso pericolo – di frustrazione delle esigenze “ contingenti ” alle procedure di selezione di personale a termine sottese – è scongiurato qualora le PP.AA. ricorrono all’indizione di bandi di concorso che prevedono prove selettive più veloci rispetto a quelle tradizionali.
Tali prove, però, oltre ad essere maggiormente celeri, spesso risultano anche “ più blande ” sotto il relativo aspetto – più propriamente – selettivo.
Il che se appare coerente con la temporaneità delle esigenze di personale cui esse tendono a fare fronte, non lo appare più quando in virtù delle stesse – e sotto il paravento dell’espletamento, comunque, di una procedura selettiva – si provvede al reclutamento di personale destinato – sia pure in seconda battuta – a far parte a tempo indeterminato degli organici della P.A..
6.4. La non necessaria equivalenza tra procedure selettive indette al fine di procedere ad assunzioni a tempo determinato e concorso pubblico.
Pur riconoscendo l’opportunità e legittimità, in caso di assunzioni termine, di siffatte procedure di selezione più celeri e più blande, nell’ambito della letteratura giuridica si è giunti all’affermazione della non necessaria equivalenza di queste con il pubblico concorso, invece, richiesto dall’art. 97, comma 3, della Carta Costituzionale ai fini dell’accesso ai ruoli a tempo indeterminato della Pubblica Amministrazione.
A tale affermazione-condivisione ( di opinioni scientifico-giuridiche )[23] si è giunti nella consapevolezza della necessarietà di essa al fine di evitare forme di distorsione nella selezione dei pubblici dipendenti destinati a sopperire in via “ fissa ” alle esigenze delle PP.AA. e, quindi, della collettività utente, in ultima analisi, dello Stato-apparato.
Peraltro, alla medesima conclusione – circa la non necessaria equivalenza tra le altre procedure selettive a termine e il concorso pubblico ex art. 97/3 Cost. – era già, sia pure implicitamente, giunta anche la giurisprudenza amministrativa[24].
6.5. Permane il principio del concorso pubblico per l’accesso a tempo indeterminato alla pubblica amministrazione.
Dunque occorre osservare che i commi 1 e 2 dell’art. 36 del D. Lgs. 29/1993 ( ora confluiti nell’art. 35 T.U. pubblico impiego ), pur nel loro testo innovato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, seppure hanno consentito alle PP.AA. di indire, per le proprie esigenze temporanee, procedure volte a garantirne l’imparzialità e selettività a prescindere dalla forma del pubblico concorso, hanno continuato, così come interpretati da dottrina e giurisprudenza, a richiedere l’esperimento e il superamento di questo ai fini dell’accesso all’impiego pubblico a tempo indeterminato.
7. Verso la “ terza ” privatizzazione ?
7.1. La legge delega ( c.d. Biagi ) n. 30 del 2003 e il D.Lgs. n. 276 del 2003 insistono sulla “ flessibilità ” nel rapporto di lavoro privato : applicabilità di alcuni istituti da tali normative previsti anche al lavoro pubblico.
La c.d. legge Biagi n. 30 del
Tale D.Lgs all’art. 1, comma 2, stabilisce che esso “ non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale ”, salvo, comunque, poi, precisare all’art. 86, comma 8, che “ il Ministro per la funzione pubblica convoca le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche per esaminare i profili di armonizzazione conseguenti alla entrata in vigore del presente decreto legislativo ”.
Siffatta armonizzazione, allo stato, non si è tradotta in alcun significativo provvedimento legislativo.
Tuttavia, occorre osservare, che, nonostante l’affermazione di principio riportata, il D.Lgs. in questione contiene alcune disposizioni per effetto delle quali talune tipologie di lavoro dal medesimo provvedimento normativo disciplinate possono ritenersi applicabili anche al lavoro pubblico.
Segnatamente in base al D.Lgs. n. 276 del 2003 continua ad applicarsi anche al settore pubblico la disciplina del lavoro interinale prevista dagli artt. 1-11 della legge n. 196 del 1997, sia pure con alcune importanti novità.
Inoltre, il D.Lgs. del 2003 introduce – all’art. 86, comma 9 - la possibilità per le pubbliche amministrazioni di applicare le norme sulla somministrazione di lavoro a tempo determinato e non anche quelle per la somministrazione a tempo indeterminato.
Questo in base al risalente divieto di intermediazione della forza lavoro, cardine del nostro sistema, e con l’ulteriore precisazione che in caso di somministrazione illecita il lavoratore non potrà mai richiedere, quale sanzione, la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato alle dipendenze della Pubblica Amministrazione.
7.2.
Anche le – nuove – forme di lavoro, pur con i limiti cui si è accennato, dunque, trovano applicazione nell’ambito del pubblico impiego privatizzato.
Ciò a dimostrazione del fatto che pure nel sistema pubblico viene sempre più avvertita, come cogente, l’esigenza di efficienza e produttività.
Valori economici, questi ultimi, ai fini del cui perseguimento la legge c.d. Biagi ha previsto le forme innovative di lavoro in questione sia pure con riferimento, appunto, prevalentemente all’ambito privato.
7.3. Prime valutazioni sociali e giuridiche negative della legge c.d. Biagi.
Il fatto – innegabile – che l’avvento della flessibilità e delle nuove forme di lavoro, sotto il profilo del relativo drafting normativo, riconducibili all’imprinting di Marco Biagi ha significato, nel contempo, anche un aumento della precarietà ha condotto ad alcune valutazioni negative in materia.
Si è così affermato, ad esempio, che la legge c.d. Biagi ha spostato l’attenzione “ dall’essere lavoratore ” ( uomo avente una personalità da tutelare anche nei suoi aspetti non patrimoniali ) “ all’avere il lavoro ” ( inteso come fonte di guadagno ).
Ancora è stato sostenuto che l’impianto delineato dalla legge c.d. Biagi ha “ disegnato una società caratterizzata dall’indiscussa ed indiscutibile supremazia delle ragioni dell’impresa, al fine di rendere la medesima libera di competere nella globalizzazione senza vincoli di costo e di diritti ”[25].
Diffusi e noti risultano, poi, i commenti alla medesima secondo cui la legge in questione avrebbe solo sancito in via definitiva la precarizzazione del lavoro, già avviata e introdotta dalle riforme in materia di lavoro degli anni ’90, prima tra tutte quella avviata dal c.d. pacchetto Treu[26], dal nome dell’allora ministro del lavoro.
7.4. Gli estremismi, da un lato, del nuovo concetto di “ sicurezza del posto di lavoro ” enucleato da alcuni autori e, dall’altro, delle tesi che definiscono la flessibilità “ ipocrita ” e fonte della “ maledizione dell’incertezza ”.
Secondo alcuni studi[27] il concetto di sicurezza starebbe andando assumendo una dimensione diversa.
L’idea non sarebbe più quella di garantire il posto di lavoro per tutta la vita, ma di permettere alle persone di rimanere e progredire sul mercato del lavoro.
Si tratta, però, di un’idea che, almeno nell’attuale momento storico, appare estrema e da non condividere se non si vuole considerare irrisolvibile l’attuale problema del precariato del mondo del lavoro.
In realtà, come ben osservato in dottrina[28], si tratta di evitare “ la flessibilità ( n.d.r. : se ) ipocrita e la maledizione dell’incertezza ”.
8. La globalizzazione e il conseguente aumento della competizione comportano l’avvio di tentativi di riforma dell’amministrazione pubblica in tutti i paesi occidentali.
In una società, qual’è quella attuale, definita “ della conoscenza[29] ”, in quanto nell’ambito della medesima ciò che le organizzazioni e gli individui, appunto, conoscono diviene sempre più importante rispetto alle tradizionali fonti di potere economico, anche le istituzioni risultano coinvolte dalle innovazioni ed esigenze che i nuovi connotati del tessuto sociale pongono in rilievo.
Inoltre, la modernizzazione che le nuove conoscenze tecnologiche comportano e l’aumento di competizione che tra i soggetti privati si verifica in virtù della “ globalizzazione ”[30] intervenuta sul piano economico richiedono il possesso da parte delle amministrazioni pubbliche di una capacità di risposta sempre più rapida ed efficace.
Difatti, si assiste allo specializzarsi delle funzioni e dei servizi richiesti alle medesime da parte dei relativi utenti, i quali, invero, avendo sempre maggiormente accesso alle informazioni, richiedono servizi su misura e di qualità elevata.
Per affrontare queste sfide, in tutti i Paesi occidentali[31] si sono sviluppati tentativi di riforma dell’amministrazione pubblica, finalizzati, da un lato, a recuperare – attraverso una lotta agli sprechi - risorse economiche da destinare al risanamento dei bilanci pubblici e, dall’altro, a modificare le politiche pubbliche in modo da migliorare l’efficacia dell’azione dello Stato-apparato e rendere effettivamente strategico il ruolo delle istituzioni.
In particolare, la strada maggiormente percorsa è stata quella dell’introduzione di nuove logiche di gestione delle risorse sia umane che economiche, basate sull’implementazione di alcuni principi propri del management privato ( c.d. politiche di new public management [32] ).
Altre linee di intervento – comunque a tali logiche strettamente collegate - sono state quelle aventi ad oggetto la razionalizzazione degli organici, le menzionate politiche retributive variabili e forme flessibili introdotte nell’ambito del lavoro pubblico e lo sviluppo di relazioni sindacali decentrate.
9. L’importanza della formazione del personale delle Pubbliche Amministrazioni.
Nell’ambito del contesto descritto è emersa, in tutta la sua evidenza, l’importanza della formazione delle risorse umane.
Presumibilmente nella consapevolezza di ciò le politiche di gestione e formazione del personale hanno rappresentato, pressoché in tutti i paesi europei, una delle principali leve su cui i programmi di innovazione delle PP.AA. sono venuti ad essere fondati.
Tali politiche, in particolare, si sono estrinsecate in varie tendenze tutte, appunto, dirette all’aggiornamento delle competenze delle risorse umane, seppur sotto denominazioni e formule differenti, essendosi parlato al riguardo, ad esempio, di “ apprendimento organizzativo ”, “ sviluppo delle competenze ”, “ economia o mercato della conoscenza ” o altro ancora[33].
Inevitabile, invero, è risultato individuare nelle risorse umane l’elemento centrale su cui impostare le politiche di innovazione della macchina amministrativa pubblica.
Anche il “ messaggio ” del Consiglio Europeo di Lisbona del marzo 2000, più in generale, ossia con riferimento anche all’ambito del lavoro privato, ha indicato la strada maestra da seguire ai fini dello sviluppo e, pertanto, dell’innovazione in quella dell’aumento e moltiplicazione degli investimenti nella ricerca e nella conoscenza ( e, quindi, formazione anche dei lavoratori ).
9.1. La necessità di non disperdere – anche ai fini della formazione del personale più giovane - le conoscenze ed esperienze acquisite dai lavoratori anziani, e, pertanto, dal personale “ stabilizzato ”.
Una delle misure adottate per razionalizzare – più sotto il profilo del contenimento dei costi che in relazione a quello dell’efficienza – la macchina amministrativa pubblica è stata quella avente ad oggetto la riduzione degli organici.
Nell’utilizzo di questa misura occorre prestare attenzione a non correre il rischio di impoverire le organizzazioni pubbliche sotto il profilo delle professionalità acquisite.
Infatti, questo rischio non pare possa essere annullato dalle recenti innovazioni legislative e contrattuali che hanno ampliato le possibilità di ricorso da parte delle PP.AA. a consulenti esterni con professionalità nuove e diverse.
Questo a causa delle peculiarità – compresi i formalismi – delle modalità di estrinsecazione del lavoro pubblico.
Per le amministrazioni pubbliche, pertanto, si pone il problema di mantenere le risorse umane competenti, valorizzandone il ruolo anche ai fini della formazione del personale più giovane e sviluppandone le capacità individuali di innovazione .
10. La sempre maggiore rilevanza attribuita alla “ Scienza dell’amministrazione ”.
In materia di innovazione e modernizzazione della pubblica amministrazione ovvio appare, pertanto, che sia maturata sempre di più la convinzione dell’importanza della scienza dell’amministrazione, intesa come quella che tende all’organizzazione di qualsiasi, pubblica o privata, struttura operativa non elementare in modo da consentire alla medesima una razionale allocazione e combinazione di tutte le risorse umane, economiche e strumentali di cui dispone[34].
Combinazione, questa, finalizzata, a sua volta, a consentire all’organizzazione che così viene in rilievo di essere in grado di definire in tempi - quanto meno tendenzialmente - celeri politiche efficaci in merito alle esigenze che ad essa si rappresentano, nonché a permetterle di portarle ad esecuzione attraverso servizi che nel caso delle amministrazioni pubbliche saranno diretti a soddisfare bisogni sociali sempre più evoluti e mutevoli.
Sostanzialmente difatti il campo di indagine della scienza dell’amministrazione ha ad oggetto la ricerca dei criteri, delle regole generali e degli indirizzi volti ad orientare le scelte decisionali delle organizzazioni amministrative nel senso dell’efficienza, atteso che, come ha precisato Cerulli Irelli, le amministrazioni – siano esse pubbliche o private - costituiscono “ una macchina che serve per decidere ed operare ”.
11. L’affermarsi degli studi sulla motivazione del lavoratore.
In particolare, uno dei temi della scienza dell’amministrazione su cui si sono concentrate le attenzioni dei processi di cambiamento che hanno interessato, nei vari stati dell’Unione Europea, le pubbliche amministrazioni è stato quello avente ad oggetto la motivazione del lavoratore[35].
Tale tema, nonostante abbia da sempre costituito uno principali campi di indagine degli studi occupatisi del migliore funzionamento delle organizzazioni amministrative[36], sostanzialmente, fino agli ultimi due lustri, non era mai stato trattato in maniera approfondita con riferimento al lavoro prestato alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche[37].
Invero, i vari studi condotti al riguardo mai, nella pratica, prima degli ultimi decenni sono stati applicati al lavoro pubblico, nonostante proprio il relativo ambito risultasse – anche a livello di percezione sociale - come quello maggiormente bisognevole di essere “ trattato ” in un’ottica incentivante, anche sotto il profilo motivazionale, il personale ad esso addetto.
Non si può negare, infatti, che il pubblico impiego è risultato per lungo tempo assai meno incentivante e, quindi, motivante rispetto all’impiego privato.
Dalla nuova consapevolezza dell’importanza del lavoro pubblico è derivata l’attenzione prestata dagli studi sulle tecniche motivazionali anche a coloro che esplicano la loro attività presso le amministrazioni pubbliche.
Gia si è accennato all’introduzione nel pubblico impiego di politiche di retribuzione variabile in base ai risultati raggiunti.
A queste devono aggiungersi tutte le misure adottate al fine di consentire il c.d. benessere organizzativo, le quali nel nostro paese si sono concretizzate nella “ Direttiva del Ministro della Funzione Pubblica ” sulle misure, appunto, finalizzate al raggiungimento di questo scopo del 24 marzo 2004.
Oramai condiviso è sia il rilievo che il processo di cambiamento avviato all’interno delle PP.AA. deve dispiegarsi necessariamente su linee di intervento che abbiano ad oggetto anche il comportamento degli stessi attori dell’agire amministrativo pubblico, sia quello concernente l’urgenza di tali interventi.
12. La diversità delle politiche concernenti la pubblica amministrazione ed il relativo personale adottate nei paesi occidentali.
Non tutti gli approcci all’innovazione nella pubblica amministrazione hanno le stesse caratteristiche, attese le differenze esistenti tra le tradizioni culturali e i sistemi giuridici e organizzativi dei vari stati che ad essa sono interessati.
Diverse sono state nei vari paesi occidentali le ricadute sulle politiche di gestione del personale avute dalle varie strategie di riforma del settore pubblico adottate nei differenti Stati europei, nonostante il comune obiettivo della innovazione e modernizzazione della macchina amministrativa pubblica perseguito da queste.
Ad esempio, spetta alla Spagna il record di lavoro precario nel pubblico impiego : difatti dei quasi 2,4 milioni di dipendenti impiegati presso le PP.AA. di questo paese oltre il 50% risulta non stabilizzato[38].
Questo dato pare consentire già una riflessione : quella avente ad oggetto l’inesistenza dell’equazione precariato-blocco dello sviluppo sociale e della crescita economica di un paese, atteso che
Inoltre, in materia di lavoro flessibile diffuso è in tutte le PP.AA. europee il ricorso al contratto a termine, ma con percentuali diverse da paese a paese.
Invero, in Italia l’incidenza media dei contratti a tempo determinato nel pubblico già nel 2000 era del 15,3%, ossia di circa tre punti superiore alla media europea attestatesi nello stesso anno intorno al 12,2%[39].
13. Le cause e le caratteristiche del “ necessario ” cambiamento in atto nelle pubblica amministrazione italiana comuni ai processi di innovazione del pubblico adottate negli altri paesi europei.
I processi di cambiamento avvenuti e ancora in atto sul piano economico e sociale hanno modificato in modo evidente lo scenario in cui opera la pubblica amministrazione[40].
In particolare, due aspetti di contesto hanno caratterizzato gli ultimi anni, condizionando le politiche pubbliche e caratterizzandone, anche nel nostro paese, il cambiamento.
Tali aspetti hanno ad oggetto la crisi dei modelli di welfare state e lo sviluppo dei processi di globalizzazione.
Questi ultimi, segnatamente, interessando soprattutto anche i mercati, ne hanno determinato un’interdipendenza economica che ha finito con il ripercuotersi sugli stessi stati giuridicamente – ma non più, pertanto, anche economicamente – sovrani.
Di qui l’ulteriore ripercussione sull’azione amministrativa dei singoli stati resi interdipendenti ( sotto il profilo economico ) dalla globalizzazione.
E’ questo un fenomeno che appare irreversibile anche perché ad esso ha dato e – deve ritenersi - continuerà a dare un forte contributo la liberalizzazione degli scambi e il conseguente progressivo smantellamento del precedente complesso sistema di barriere doganali insiti in tutte le attuali aggregazioni sopranazionali ( a cominciare da quella dell’Unione Europea cui partecipa il nostro paese ) e intercontinentali ( si pensi, ad esempio, al W.T.O.).
Da tali fenomeni – di crisi del welfare state e di intervenuta globalizzazione – invero scaturisce la descritta ri-modulazione in chiave efficentistica[41] dell’azione amministrativa pubblica in atto nei paesi occidentali e di cui costituisce manifestazione l’avvento del lavoro anche flessibile.
14. Le difficoltà del cambiamento in atto nelle PP.AA. e le resistenze all’attuazione del medesimo.
Il settore pubblico rispetto a quello privato possiede caratteristiche che ne delineano contorni del tutto particolari e, più in generale, un peculiare contesto. Nel settore privato, infatti, gli obiettivi sono espliciti e la verifica del loro raggiungimento viene ad essere direttamente realizzata dal datore di lavoro.
Nel pubblico gli obiettivi da raggiungere sono, innanzitutto, molteplici e, comunque, più numerosi e variegati.
Inoltre, essi spesso risultano impliciti nell’azione amministrativa pubblica ( pur convergendo tutti, in ultima analisi, verso la fornitura di un pubblico servizio ) ed il controllo sull’azione svolta dai dirigenti e dal restante personale non è condotto dal “ datore di lavoro ”, ma demandato ad un insieme di norme e procedure atte a garantire ( per quanto possibile ) la correttezza dell’agire pubblico, la relativa efficacia ed il perseguimento dell’interesse della pubblica amministrazione e, quindi, almeno in teoria, del cittadino.
Infine, nel settore pubblico sono, talvolta, riscontrabili obiettivi di consenso politico che si mescolano a quelli aventi ad oggetto la qualità dei servizi e dei prodotti e che possono influenzare le logiche di reclutamento e gestione del personale, oltre che la cultura della legalità amministrativa.
Tutti questi fattori rallentano indubbiamente il cambiamento in atto.
14.1.
Le difficoltà che le pubbliche amministrazioni incontrano nel relativo cambiamento dipendono, pertanto, almeno in parte dai loro stessi “ mali antichi ”.
Innanzitutto, alla base delle resistenze alla relativa modernizzazione si pongono i vincoli citati e le rigidità menzionate, le quali, peraltro, per i destinatari dell’azione amministrativa pubblica generano servizi talvolta al di sotto degli standards minimi e, comunque, quasi sempre, delle attese dei relativi utenti, rispetto alle cui esigenze, invero, lo Stato-apparato dimostra, quasi sempre, bassa, quando non nulla, capacità di adattamento.
Poi sotto il profilo dell’impiego delle risorse umane ed economiche di cui le PP.AA. dispongono, il medesimo “ formalistico ” relativo modus operandi accentua e pone ancor di più in evidenza le carenze dell’azione amministrativa pubblica determinate dall’insufficienza di motivazioni dei pubblici dipendenti ( quando non dalla loro, in alcune ipotesi, talvolta, bassa professionalizzazione ) e, inoltre, la ridotta produttività e lo spreco di risorse che ne deriva[42].
Conseguenze, tutte queste, alla cui base si pongono, oltre ai menzionati formalismi, anche i meccanismi di volano occupazionale con cui, a prescindere dagli effettivi meriti dei destinatari dell’assunzione nella P.A., si è proceduto, come detto in modo spesso clientelare, al reclutamento delle risorse umane nel pubblico impiego soprattutto nei primi due decenni di ispirazione al welfare state.
15. La transizione da un’amministrazione pubblica immobile, quasi più attenta all’autoalimentazione di se stessa, ad una P.A. recettiva nel proprio modus operandi e vigile sulla verifica funzionale di tale modus.
Diffusa risulta la convinzione che la pubblica amministrazione, nel nostro così come negli paesi dell’Europa continentale, stia attraversando un periodo di transizione reso ancora di più inevitabile dalle menzionate resistenze al cambiamento di essa e dai tempi necessari per il superamento delle medesime.
La transizione in questione ha come punto di partenza la riscontrata esistenza di apparati pubblici che, seppure svincolati dal potere politico, hanno mantenuto, nella loro azione, l’ottica e la destinazione tipicamente perseguita dalle burocrazie - vere e proprie “ Corti ” - medievali ed ottocentesche[43], volte più all’autoalimentazione delle medesime che all’erogazione di servizi destinati ad utenti esterni alle medesime.
Il punto di arrivo della transizione in atto è invece costituito dall’avvicinamento – apparendo ancora prematuro parlare di vera e propria assimilazione - delle PP.AA. a tutte le altre organizzazioni private create al fine di soddisfare i bisogni e le esigenze ad esse rappresentate dall’esterno e, pertanto, aventi una mission al di fuori delle medesime, anche se motivata da finalità intrinseche alle stesse, che con riferimento alle organizzazioni amministrative pubbliche viene intesa non in termini di profitto – come per quelle private – ma semmai di erogazione di servizi pubblici ( intesi in senso lato ) con contestuale contenimento o, comunque, razionalizzazione dei relativi costi.
Di questa tendenza del cambiamento in atto pare costituire segnale, se non vere e propria testimonianza, l’evoluzione che ha interessato la nozione di ente pubblico nel diritto comunitario ove, invero, si è affermata in luogo di essa una definizione di organismo di diritto pubblico nell’ambito della quale sono state pure ricomprese aggregazioni avvenute utilizzando schemi-base, ad iniziare da quello societario, in tutto e per tutto analoghi a quelli tipici della tradizione privatistica.
Tale trasformazione – della nozione di ente pubblico – peraltro ha trovato manifestazione, sia pure a livello sostanziale, anche nel nostro diritto interno nell’ambito del quale, invero, sempre più labili sono divenuti i confini tra soggetto di diritto privato ed ente pubblico[44].
Utilizzando un’espressione più volte adottata con riferimento al pubblico impiego, pertanto, potrebbe parlarsi privatizzazione per descrivere il fenomeno che interessa, sia pure più labilmente, la stessa pubblica amministrazione sotto il profilo dell’ispirazione e di alcune caratteristiche del relativo agire.
Fenomeno, questo, cui, per converso, ha corrisposto nel settore privato la oramai quasi definitiva accettazione – prima invece controversa - del principio della neutralità della veste societaria, in passato, invero, ritenuta prerogativa, se non esclusiva, comunque tipica dell’agire delle organizzazioni del settore privato.
15.1. L’affermarsi dell’analisi per costi e benefici nella nuova “ scatola degli attrezzi ” della Pubblica Amministrazione.
Il rilievo che la pubblica amministrazione non può valutare la propria azione, attesa la relativa finalità sociale, facendo esclusivo riferimento agli esborsi e alle entrate monetarie connesse alla medesima non ha impedito, nella misurazione della relativa performance, l’utilizzo, tra le varie metodologie, dell’analisi c.d. per costi e benefici.
Tale analisi si fonda sull’esame – poi impiegato in chiave comparativa - degli effetti che l’investimento che così viene in rilievo produce sui soggetti che del medesimo dovrebbero beneficare.
Il soggetto in questione nel privato sarà la stessa organizzazione imprenditoriale privata che tale investimento effettua, mentre nel settore pubblico sarà la collettività destinataria dell’azione posta in essere dalla pubblica amministrazione che così viene in rilievo.
Di qui, appunto al fine di utilizzare tale meccanismo di analisi anche nell’ambito pubblico, l’effettuazione della valutazione dei costi e benefici dell’azione amministrativa pubblica tenendo presente non solo i valori monetari menzionati, ma anche i vantaggi e i sacrifici che dall’azione dell’operatore pubblico dovessero eventualmente derivare, direttamente o indirettamente, per la collettività dalla sua azione coinvolta[45].
Ciò, comunque e peraltro, con gli inevitabili problemi connessi alla “ pesatura ” di entità non appartenenti ad una scienza esatta, quali sono i vantaggi e i sacrifici in questione.
15.2. La sempre maggiore attenzione prestata alle politiche di budgeting.
Proprio per consentire una migliore allocazione delle risorse e soprattutto al fine di contenere gli sprechi ( e nell’ambito della lotta ai medesimi ) anche nell’organizzazione amministrativa pubblica notevole attenzione viene dedicata al budget, sia sotto il profilo della relativa costruzione che del relativo utilizzo.
Conseguenza e figlia di questa attenzione è stata nel settore pubblico anche l’acquisita condivisa consapevolezza dell’esigenza di razionalità delle scelte strategiche, nonché l’intervenuta manageralizzazione che ha interessato
Invero, nelle strutture di medio-grandi dimensioni, quali sono, generalmente, le pubbliche amministrazioni, il budget - non potendo le medesime, proprio per le loro dimensioni, “ essere pilotate ” a vista - viene ad inserirsi in un più ampio sistema di controllo direzionale attraverso il quale, oltre a venire ad essere fissati gli obiettivi e gli strumenti ad essi dedicati, si tenta di influire, al fine di perseguire i medesimi obiettivi, sul comportamento dei lavoratori interessati.
In tali strutture il budget può assumere anche l’ulteriore aspetto di strumento di direzione volto ad assicurare un adeguato livello di responsabilizzazione e motivazione dei dipendenti, oltre ai tradizionali e ormai consolidati profili di misura di programmazione e di supporto della gestione operativa della struttura che così viene in rilievo.
15.3. L’informatizzazione della Pubblica Amministrazione italiana.
Connessa al tentativo di attribuzione di maggiore efficienza ( soprattutto sotto il profilo della relativa snellezza ) alla pubblica amministrazione e, inoltre, volta alla modernizzazione della medesima ed a consentire un più efficace utilizzo degli strumenti di controllo su di essa appare l’informatizzazione avviata nel 1993 attraverso il D.Lgs. n. 39.
Tale provvedimento normativo, invero, ha, per sua stessa espressa previsione, quali obiettivi quelli di consentire un “ miglioramento dei servizi ” ed il “ contenimento dei costi ” dell’azione amministrativa pubblica, in funzione del cui raggiungimento il medesimo ha altresì provveduto ad istituire un’apposita Authority ( appunto per l’informatica nelle pubbliche amministrazioni, AIPA ).
Inoltre, alla base dell’informatizzazione della pubblica amministrazione pare porsi anche il tentativo di dare soddisfazione ad una domanda di prestazioni rivolta alla medesima che ha subito, come detto, un salto di qualità a seguito dell’accentuazione – e talvolta esasperazione – della competitività comportata dall’ancora in corso globalizzazione.
Tale accentuata competitività, invero, ha condotto gli stessi fruitori dell’azione amministrativa pubblica a divenire ( in questo aiutati anche dagli interventi normativi inaugurati dalla legge n. 241 del 1990 nella sua prima formulazione ) maggiormente consapevoli dei propri diritti ed attenti al livello delle prestazioni e dei servizi offerti dalle varie pubbliche amministrazioni[46].
15.4. Lo “ spoil system ”.
Una Pubblica Amministrazione più efficiente pare essere l’obiettivo perseguito anche dal meccanismo dello spoil system, così definito con un termine che appare corretto soltanto se utilizzato in relazione ai massimi dirigenti che possono essere rimossi, e quindi “ perdere il posto ”, a ogni cambio di ministro.
Meccanismo, questo, che è strettamente correlato alla separazione e distinzione di responsabilità tra politica e amministrazione, sempre, come detto, in tale ottica efficentistica introdotta.
Infatti, una volta prevista tale separazione e riservate, dunque, quasi tutte le decisioni puntuali ai Dirigenti di carriera, il legislatore dei primi anni
Nonostante, come ben rilevato da Cassese, “ tutta l’esperienza di questo secolo avrebbe consigliato di intraprendere un’altra strada, di valorizzare il merito, la professionalità e la preparazione tecnica, non la fedeltà politica ”, occorre osservare che la concreta esperienza amministrativa, nelle sue diverse manifestazioni positive, ha dimostrato che nella scelta non sempre esclusivamente di fede politica si è trattato.
16. La flessibilità contribuisce all’affermarsi di un’amministrazione, anche nel pubblico, per obiettivi e risultati.
Si è convenuto[48] sul fatto che in ambito pubblicistico la flessibilità è destinata a diventare uno strumento efficace ed un metodo di intervento per la riorganizzazione della macchina burocratica che deve essere efficiente e al tempo stesso attenta alle problematiche occupazionali,
Difatti, non si può sottacere che il tema delle flessibilità costituisce un tassello importante di un più ampio ragionamento sul cambiamento delle pubbliche amministrazioni.
Ragionamento, questo, legato alla valorizzazione delle risorse umane e all’abbandono di alcune regole – troppo - formali a favore del raggiungimento di risultati efficaci e tangibili, in modo da garantire il miglioramento nella qualità dei servizi erogati, pur nel contenimento della spesa pubblica.
16.1. Flessibilità e efficienza.
Condivisa è, altresì, l’osservazione che anche nella Pubblica Amministrazione può verificarsi quello che accade nel privato nel caso in cui le imprese tollerano impiegati od operai “ fannulloni ”[49] o comunque, demotivati in quanto non incentivati.
Tali conseguenze sono : costi maggiori e/o servizi di qualità inferiore e, pertanto, perdita di competitività.
Al fine di evitare tale rischio non basta “ che le direzioni del personale nella Pubblica Amministrazione facciano il loro dovere con la stessa solerzia con cui lo fanno nel settore privato ”[50].
Solerzia, questa, che, peraltro, nel pubblico, allo stesso modo di quanto avviene nelle imprese private monopolistiche, non sempre è riscontrabile.
Occorre anche incentivare la prestazione dei pubblici dipendenti e, fin dove possibile, la loro produttività pure attraverso il ricorso a meccanismi di flessibilità nella concreta articolazione della relativa prestazione lavorativa.
16.2. Flessibilità e posti di lavoro.
L’accettabilità e concretezza delle risposte che è possibile trarre dalla flessibilità si fonda sulla difficile coniugazione tra creazione di – nuovi - posti di lavoro ” e “ sicurezza ” dell’impiego[51] dell’impiego che qualsiasi eventuale ( ed auspicato ) riesame della normativa su contratti di lavoro dovrà affrontare.
17. I problemi sociali del lavoro stabile e della conservazione del posto di lavoro.
Non si può nascondere, invero, che, a fronte di tutte le precedenti considerazioni di carattere giuridico-tecnicistico riguardo ai possibili benefici per l’efficienza ed efficacia delle imprese e anche PP.AA. di un approccio flessibile al mondo del lavoro, se ne pongono e contrappongono altre sul piano sociale.
Considerazioni e preoccupazioni che, proprio perché concernenti la societas, paiono, oltre che meritevoli della massima attenzione, degne di poter temperare i tecnici ragionamenti giuridici, anche nel caso in cui si dovesse trattare di quelli più rigorosi, peraltro, non essendo il diritto, al pari della sociologia, una scienza esatta.
Del resto, occorre ricordarsi che proprio il fine del diritto appare quello di recepire le istanze che provengono dalla società e regolamentarle in modo che vengano – tutte, comprese quello dello Stato, inteso come entità personificata al servizio della collettività – adeguatamente contemperate.
Le considerazioni e istanze sociali che si pongono e contrappongono all’odierna regolamentazione flessibile del lavoro – anche pubblico - sono quelle che rappresentano l’esigenza, utilizzando un’espressione propria delle scienze di matrice filosofica e antropologica, “ per la liberazione dell’uomo ” di un impiego stabile.
Pertanto, in proposito vengono in rilievo l’esigenza di un impiego e quella, avvertita come di pari importanza rispetto alla necessità dell’ingresso nel mondo del lavoro, della conservazione dell’impiego così eventualmente ottenuto.
Peraltro, tali esigenze appaiono ancora più evidenti al fine di poter pianificare, quanto meno, un’esistenza dignitosa nell’odierna società consumistico-edonistica.
Ciò, seppur non si sia ancora verificata nel nostro paese una situazione analoga o simile al c.d. – implicitamente menzionato – “ caso spagnolo ”, caratterizzato dall’avvenuto sorpasso degli impieghi stabili da parte di quelli a termine complessivamente – e, quindi, con riferimento sia al settore pubblico che a quello privato - considerati.
Difatti, nonostante nel nostro paese non si sia ancora in presenza di una simile situazione, non si può sottacere il fatto che anche in Italia chi si appresta ad entrare nel mondo del lavoro si incammina verso un tormentoso sentiero che quasi necessariamente delinea il passaggio dal lavoro in nero a quello a progetto, a tempo determinato, etc., prima di approdare, peraltro solo eventualmente, al tanto agognato impiego stabile, in una sorta di aberrante cursus honorum.
A ciò si aggiunge l’ulteriore preoccupazione di conservare il posto di lavoro eventualmente “ conquistato ”.
17.1. Gli effetti psicosociali dell’instabilità del lavoro.
Gli effetti psicosociali della costante instabilità del lavoro costituiscono oramai, anche a causa della loro diffusione, oggetto di studio[52].
Da tali studi emergono le conseguenze sulla vita personale, familiare e sociale degli individui che, per effetto della loro condizione di lavoratori non stabili, si trovano nell’impossibilità di programmare il proprio futuro e, comunque, ad avere una prospettiva di organizzazione sotto il profilo temporale più corta.
Invero, non si può sottacere che una sequenza prolungata di lavori a termine, per di più sovente scarsamente retribuiti, finisce per riflettersi negativamente sulla condizione del lavoratore, influenzandone le scelte di vita, compresa quella relativa alla paternità e maternità.
D’altro canto, è ragionevole ritenere che un lavoratore a termine costi di più alla collettività di uno, invece, impiegato stabilmente in quanto necessiterà, rispetto a quest’ultimo, di più interventi pubblici sia per sostenere il suo reddito, sia di politica attiva.
17.2. La precarietà, se limitata alla prima parte della vita professionale del lavoratore, appare preferibile alla disoccupazione.
Nonostante il concetto di flessibilità evochi nell’immaginario collettivo quasi esclusivamente nitide percezioni di precarizzazione dei rapporti di lavoro e, invero, soltanto raramente un idea di un nuovo assetto e di una modernizzazione delle relazioni giuridiche che disciplinano le forme di erogazione del lavoro[53], occorre soffermarsi anche sugli effetti positivi del lavoro flessibile, mettendo da parte la non costruttiva ed immatura logica del “ tutto ( in questo caso rappresentato dal lavoro a tempo indeterminato ) e subito ”.
Al riguardo non si deve dimenticare che il ricorso alla flessibilità è stato previsto nel nostro ordinamento seguendo le indicazioni delineate a livello comunitario in materia di lotta alla disoccupazione.
Già nella dimensione sovranazionale, invero, si era convenuto sul fatto che il lavoro flessibile, seppure non avrebbe di certo costituito l’antidoto alla disoccupazione e la panacea di tutti i mali di chi è senza lavoro, comunque avrebbe potuto, almeno nel breve termine, limitare gli effetti negativi derivanti da uno stato di inoccupazione e, nel contempo, agevolare l’inizio o la ripresa di un percorso di lavoro.
18. La tendenza nel pubblico impiego - socialmente apprezzabile e giuridicamente deprecabile - alla incardinazione di rapporti di lavoro stabili, senza il rispetto della rigorosa selezione imposta dall’art. 97/3 della Costituzione.
Alcuni autori in dottrina, nell’evidenziare il fenomeno in oggetto, hanno concluso nel senso che esso costituisce la manifestazione di uno dei mali storici della Pubblica Amministrazione, la quale, secondo gli stessi, sarebbe sperequata nella regolamentazione e gestione del rapporto di lavoro presso di essa incardinata poiché si preoccuperebbe quasi esclusivamente della posizione del lavoratore piuttosto che di quella del datore di lavoro, dalla medesima P.A rappresentato.
A prescindere dal fatto che tale fenomenologia costituisca o meno una riproposizione dell’utilizzo, effettuato soprattutto nel “ dopo-guerra ”, della Pubblica Amministrazione in chiave di “ volano occupazionale ”, non pare, comunque, potersi negare che questa deprecabile tendenza esista.
Una riprova della sua concretezza pare potersi riscontrare nella circostanza che la tendenza in oggetto si rinviene nel pubblico impiego ( inteso in senso lato ) anche in un campo diverso da quello del lavoro subordinato : quello del rapporto di lavoro autonomo alle dipendenze della pubblica amministrazione[54].
In proposito, infatti, si può ricordare quanto è avvenuto con riferimento ai c.d. co.co.co. ( collaboratori coordinati e continuativi ), la cui reiterata ( e talvolta illimitata ) proroga ha, di fatto, comportato un impiego stabile degli stessi nonostante i medesimi venissero sovente individuati medianti bandi pubblici che prevedevano “ un esame comparativo dei curricula presentati, mirante ad accertare la migliore coerenza con le caratteristiche curriculari richieste, integrato eventualmente dal colloquio ” e, pertanto, legittimamente – venendo in rilievo, appunto, in questo caso, un diverso ( rispetto a quello subordinato ) rapporto di lavoro - sfuggivano alle regole dell’accesso ( mediante procedura selettiva o concorso ) ai ruoli dell’amministrazione pubblica.
Di tale fenomeno – della distorsione nell’utilizzo di fatto in pianta stabile del medesimo collaboratore coordinato – si è occupata anche
Circolare, questa, anche nella quale, sia pure implicitamente,
Infatti, in tale circolare, il Dipartimento della Funzione Pubblica ha precisato che “ solo quando sia funzionale al raggiungimento dello scopo per il quale il contratto era stato posto in essere … è ammissibile la proroga dell’incarico di co.co.co. …, la necessità di ricorrere al quale … deve costituire rimedio eccezionale per far fronte ad esigenze peculiari per le quali l’amministrazione necessita dell’apporto di apposite competenze professionali ( n.d.r. : non riscontrabili nel personale in servizio ) … anche perché l’oggetto dell’incarico di collaborazione è circoscritto dall’ambito delle attività definite dall’articolo 7, comma 6, del D.Lgs. n. 165 del 2001, il quale si riferisce ad esperti di provata competenza ”.
Invero, le modalità utilizzate per la selezione dei co.co.co paiono determinare un’elusione alle regole del pubblico concorso quando vengono utilizzate per creare rapporti di lavoro alle dipendenze della P.A., anche se non giuridicamente, di fatto stabili.
Tali rapporti di lavoro, in quanto appunto di fatto stabili, sono andati a colmare delle lacune di organico per riempire le quali sarebbe stato non solo più legittimo bandire un concorso, ma anche più opportuno, consentendo l’espletamento di una procedura concorsuale una possibilità di accesso al lavoro pubblico anche ad altri soggetti magari meno interessati ad un lavoro di collaborazione che, in linea astratta, si configurava come a termine e, inoltre, pertanto, una maggior scelta, nel reperimento delle risorse umane, da parte della pubblica amministrazione.
18.1. Procedure selettive per l’accesso temporaneo nelle PP.AA., concorso pubblico ex art. 97/3 Cost., loro commistione, confusione e, talvolta, elusione.
Le menzionate novità introdotte dalle diverse c.d. “ privatizzazioni ” che hanno interessato il pubblico impiego, pur consentendo, tra l’altro, alle PP.AA. di avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione del personale vigenti nel privato, non hanno, dunque, comportato a livello regolamentare alcuna – nuova – deroga alla necessità, per poter accedere agli organici “ fissi ” della Pubblica Amministrazione, del superamento di un pubblico concorso.
Riguardo a tale meccanismo di selezione e alla relativo caratterizzazione in chiave garantistica la corte delle leggi, invero, anche di recente[56], ha ricordato come la propria giurisprudenza individui “ costantemente …la forma generale ed ordinaria di reclutamento per il pubblico impiego … nel concorso pubblico, in quanto meccanismo strumentale al canone di efficienza dell’amministrazione ”.
Meccanismo la cui “ regola … può dirsi rispettata solo quando le selezioni non siano caratterizzate da arbitrarie ed irragionevoli forme di restrizione dell’ambito dei soggetti legittimati a parteciparvi ” e vengano seriamente attuate prevedendo, ad esempio, “ oltre alla valutazione dei titoli, l’espletamento di prove d’esame volte all’accertamento della idoneità dei candidati ai posti da ricoprire, per i quali rimane ferma, comunque, l’esigenza del titolo di studio corrispondente al livello funzionale ”[57].
Tuttavia, come detto, se pure tale risultato “ di deroga ” non è stato nemmeno auspicato né per via normativa, né tantomeno dai pratici del diritto, alcuni nuovi scenari in materia di accesso ai ruoli a tempo indeterminato delle Amministrazioni pubbliche “ saltando ” il pubblico concorso sono venuti, di fatto, a prospettarsi a seguito dell’utilizzo - anche - da parte delle PP.AA. delle c.d. forme di lavoro flessibile.
E questo è accaduto non soltanto con riferimento ai contratti di collaborazione coordinata e continuativa ( di fatto, reiterati “ in automatico ” ) cui si è fatto riferimento.
Infatti, ciò si è verificato anche, ad esempio, in relazione alle selezioni per soli titoli o per quiz - implicanti un livello di difficoltà assai minore di quello del quale viene richiesto il superamento per l’accesso a tempo indeterminato ai ruoli della P.A. – indette al fine di ricoprire posti pubblici a tempo determinato poi, però, stabilizzati.
19. L’importanza e necessità della coesione sociale.
La necessità del rispetto dei limiti e delle forme previste, anche ai fini di garantistici dell’efficienza dello Stato-apparato, dell’impianto normativo che disciplina l’accesso al pubblico impiego non deve autorizzare a ritenere irrisolvibile o, comunque, secondario il problema sociale ( della ricerca ed assenza ) del lavoro stabile che connota, affliggendola, la contemporanea società non soltanto nel nostro ambito territoriale, ma più in generale in quello continentale europeo e non solo.
Questo senza che ciò significhi il ritorno a vecchie pratiche ( spesso, come detto, clientelari ) che interpretino il pubblico impiego sostanzialmente in una chiave di mera creazione di lavoro, la quale, peraltro, così congegnata non parrebbe nemmeno giovare alla stessa società, atteso che una tale formula, pur determinando lavoro e pertanto rispondendo all’istanza che in tal senso proviene dalla comunità, per altro verso determinerebbe un effetto di “ droga ” della medesima società impingendola di una sicuramente non sana e non utile mentalità assistenzialistica e non meritocratica.
Mentalità, questa non meritocratica, che, peraltro, anche sul piano economico e giuridico non condurrebbe la comunità da essa interessata lontano, in un’epoca, qual’è quella attuale, contraddistinta dalla sempre maggiore competizione tra tutti i vari soggetti determinata dall’intervenuta, accennata, globalizzazione dei mercati.
Il problema del lavoro stabile e la necessità della sua risoluzione pare, piuttosto, ribadire ed evidenziare ulteriormente rispetto a quanto già avvenuto in passato l’importanza del raggiungimento di una coesione sociale, peraltro, tipica espressione del principio di solidarietà sancito dall’articolo 2 della nostra Costituzione, nonché di quello teso al raggiungimento di una sostanziale eguaglianza di cui al successivo articolo 3, secondo comma.
Tale obiettivo - della coesione sociale - è ben presente anche in ambito comunitario, pure nel quale esso viene ad essere ricollegato ad un’esigenza solidarietà tra gli Stati membri e le varie regioni che compongono l’Unione europea.
19.1. Il rilievo in ambito comunitario della coesione sociale e il vertice di Lisbona del marzo 2000.
Nell’Unione Europea l’importanza del raggiungimento di una coesione sociale, nonché economica, è stata ben presente fin dal momento dell’istituzione della Comunità Economica Europea.
Invero, il trattato di Roma del 1957 istitutivo della medesima, nel relativo preambolo, faceva riferimento all’esigenza di equiparazione dei diversi livelli di sviluppo tra le regioni europee e, pertanto, le relative popolazioni.
Di qui, al fine del raggiungimento di essa diversi interventi finanziari nello specifico ambito dei Fondi strutturali e del Fondo non strutturale ( appunto )di coesione.
Il Vertice di Lisbona del marzo 2000o, da ultimo, ha, in particolare, riconosciuto alla “ coesione sociale ” una valenza di pari grado rispetto allo sviluppo economico ed alla crescita dell’occupazione pure dall’azione europea perseguiti.
Inserire i risultati della ricerca sul messaggio di Lisbona del 2000.
20. La necessità di ammortizzatori sociali per i lavoratori c.d. flessibili.
In materia di coesione sociale vengono in rilievo anche i temi più specifici, strettamente correlati alla medesima materia, della previsione di effettivi ammortizzatori sociali per i soggetti impiegati sulla base delle nuove tipologie dei lavori c.d. flessibili e dell’elaborazione di uno “ Statuto dei lavori ”, già posti in agenda dal “ libro bianco del lavoro ” elaborato nel 2001 ( cosiddetto Biagi )[58].
Ciò in quanto fino ad adesso tale tema non è stato normativamente affrontato.
Infatti, anche l’ultimo esecutivo di centro-destra ( Governo Berlusconi 2001-2006 ), seppur di intera legislatura e pur nella consapevolezza del problema, non è riuscito a dare concretezza normativa alle misure proposte per affrontare questo tema.
Così emulando sul punto, quanto a risultati, il precedente governo di centro-sinistra che aveva promesso una protezione “ minima ” dei co.co.co. e sperimentato una forma di sostegno ai disoccupati ( con il “ Reddito minimo di inserimento ”, acronimo : Rmi ) in alcune zone del paese, senza poi proseguire e sviluppare tale sua iniziativa.
Al riguardo è stato proposta, ad esempio, la previsione in via normativa generale della ricongiunzione a fini pensionistici di tutti i percorsi lavorativi, precisando, peraltro, che tale proposta costituisce soltanto un’ipotesi << minima >> di tutela sociale del lavoratore a termine.
Infatti, appare evidente come ciò non possa cosituire “ la panacea ” di tutte le incertezze e i rischi cui vanno incontro i lavoratori non stabili.
Così come non è detto che altre misure rispetto a quelle più tradizionali non possano essere individuate in materia.
Ad esempio, invero, si potrebbe pensare al riguardo di facilitare la stabilizzazione del lavoro attribuendo diritti di seniority per chi è stato precario abbinati a meccanismi di fiscal-drug temporaneo per l’imprenditore che riconosce tali diritti, attuando una conversione.
Tra l’altro, occorre osservare che in proposito non si parte da zero.
Nel nord-Europa ( in particolare in Svezia, Danimarca e Olanda ) si sta da tempo cercando di individuare una linea garantistica ed universalistica che miri a rovesciare il senso e il significato della flessibilità così come attualmente, anche nel nostro paese, concepita.
Ciò, segnatamente, attraverso una sinergia di studi – “ open method of coordination ” - che l’Unione Europea ha già annoverato tra le c.d. best practises in materia di contrasto all’esclusione sociale e che hanno dato luogo ad una sorta di nuova materia di riflessione scientifica definita con l’acronimo “ Flexicurity ” per sintetizzare il binomio flessibilità e welfare[59] su cui si incentra.
Anche da tale nuova materia oggetto di studi non pare possano attendersi “ paradisi in terra ”, ma piuttosto complessi compromessi sociali, tra l’altro, allo stato, ad alto tasso di sperimentazione.
Tuttavia, essa pare costituire un modello più avanzato e coraggioso di quelli aventi ad oggetto la pura limitazione della temporalità, sui quali si incentrano, ad esempio, anche i programmi in materia dei nuovi esecutivi spagnolo ( “ Zapatero ” ) e ( Prodi ).
E di tali modelli pare doversi tenere conto in un’epoca come quella attuale, caratterizzata dall’avviata percorrenza di un sentiero “ senza ritorno ” verso una sempre maggiore competività e nella quale il “ declino del modello del lavoro subordinato a tempo indeterminato ” non è dovuto soltanto - come pure, invece, si è affermato[60] - all’astuzia delle attuali imprese << socialmente irresponsabili >>.
Infatti, pur nell’alternanza tipica dei sistemi politici bipolari e delle relative valutazioni, su un dato le forze politiche ( oltre che imprenditoriali ) concordano : l’esigenza di maggiore flessibilità nel mondo del lavoro.
21. Le dimensioni raggiunte dal lavoro a termine nel pubblico e l’attuale quasi esclusiva instaurazione nel settore privato dei rapporti di lavoro ex novo attraverso il ricorso alle forme flessibili di impiego.
Nell’ambito del pubblico impiego c.d. “ privatizzato ” i rapporti di lavoro atipici, secondo i dati della Ragioneria Generale dello Stato, nel corso dell’anno 2005 hanno raggiunto ( pur escludendo dal computo il personale volontario delle Forze armate e dei corpi di polizia militare, quello scolastico e i docenti universitari a contratto ) il numero di 152.000 unità, con una incidenza rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato pari all’8,6 %.e una netta prevalenza della tipologia del rapporto di lavoro a termine.
Tale tipologia, pertanto, costituisce quella cui, tra i lavori flessibili,
Nel privato, poi, costituisce un trend consolidatosi negli ultimi anni quello avente ad oggetto l’utilizzo, per l’instaurazione ex novo di rapporti di lavoro, degli schemi di lavoro flessibile e tra questi di quello del contratto di lavoro a tempo determinato, presumibilmente anche in considerazione dell’ampiezza delle causali ( cui si effettuerà riferimento successivamente nel presente lavoro ) in presenza delle quali ciò è consentito dalla normativa in materia.
In particolare, se si esclude il pubblico impiego, nel nostro paese dal
Il ricorso in tali dimensioni a tale forma di lavoro nel privato si è verificato, secondo le dichiarazioni degli stessi imprenditori, in modo da poter consentire a questi di “ saggiare ” per un periodo congruo il lavoratore prima – almeno negli intenti ufficialmente dichiarati – di procedere alla relativa “ stabilizzazione ”.
Infatti, si rileva che nessun serio imprenditore avrebbe interesse a licenziare persone valide e formate all interno della propria azienda ( giovani o anziani che siano ).
E la maggior parte degli economisti dichiara che la buona performance dell’occupazione verificatasi negli anni 1997-2005 ( con Governi di centrosinistra e di centrodestra) non sarebbe stata possibile in assenza di questa e delle altre forme di lavoro flessibile.
21.1. Il paradosso della precarietà nel lavoro pubblico tradizionalmente caratterizzato dalla relativa stabilità.
Peraltro, occorre osservare che, poiché il meccanismo sanzionatorio che prevede la conversione-stabilizzazione del lavoro a tempo determinato in un impiego a tempo indeterminato nell’ipotesi – di cui appresso si dirà – di abuso dello strumento del lavoro a termine viene ad essere applicato soltanto con riferimento al lavoro privato, paradossalmente i rischi di un utilizzo della tipologia del lavoro a termine come modalità normale di impiego delle risorse umane e, pertanto, di un dilagare, del precariato si manifestano soprattutto nell’ambito del pubblico impiego.
Vale a dire nell’ambito di quell’impiego pubblico che quando risulta, sul piano sociale, ambito lo è soprattutto sulla base di considerazioni che prevalentemente si incentrano sulla garanzia di stabilità che – si continua tralatiziamente ad affermare – lo caratterizzerebbe.
22. Esigenza di procedere ad un nuovo bilanciamento di interessi ugualmente rilevanti : efficienza e produttività dell’azienda – anche - pubblica e garanzia del lavoro.
Le rilevanti - e di frequente gravi – implicazioni che sul piano sociale comporta la precarietà del lavoro vengono, dunque, rese ancora più incidenti dalle dimensioni assunte dal fenomeno, anche in conseguenza dell’utilizzo ( quanto meno di alcune ) delle forme di lavoro flessibile pure da parte delle amministrazioni pubbliche.
Con riferimento al pubblico impiego tali implicazioni paiono dover costituire oggetto di riflessione nell’ambito di una più ampia analisi avente ad oggetto anche i rilievi e le considerazioni effettuate circa l’esigenza sempre più sentita, pure sul piano sociale, di una pubblica amministrazione efficiente, oltre che rispettosa dei canoni di economicità.
Infatti, all’utilizzo delle tipologie di lavoro flessibile nell’ambito del pubblico impiego non sempre si è accompagnato, un aumento di efficienza, efficacia ed economicità dell’azienda-Stato, al contrario di quanto avviene nelle imprese private.
In questo “ discorso ” si inseriscono anche i rilievi effettuati riguardo alle distorsioni determinatasi con riferimento alla regola del pubblico concorso e, quindi, alla necessità di un’effettiva selezione nell’acceso all’impiego a tempo indeterminato presso un’amministrazione pubblica.
Invero, i problemi della precarietà del lavoro e dell’auspicata e sempre più necessaria efficacia ed efficienza della P.A. si presentano strettamente correlati tra loro quando viene preso in analisi il pubblico impiego e, sia singolarmente che nel loro insieme considerati, risultano collegati all’esigenza di una selezione che consenta all’azienda pubblica di avvalersi dei – e “ dare lavoro ” ai - “ migliori ”.
Se è vero che socialmente rilevante appare la risoluzione del problema di rendere sempre meno ( e possibilmente soltanto per un primo periodo di tempo ) precarie le forme di impiego, è altrettanto vero che, sempre sul medesimo piano sociale e su quello dei rapporti Stato-cittadino, si avverte ogni giorno di più l’importanza, se non la necessità, che anche la “ macchina pubblica ” funzioni bene, senza sperperare risorse collettivamente finanziate ed assicurando, nel contempo, servizi rapidi ed efficienti.
Peraltro, tutte tali esigenze sociali trovano il loro fondamento in quella più generale – già tenuta presente dalla nostra Costituente - di assicurare all’uomo ( intorno al quale tutto l’ordinamento e, pertanto, il diritto ruota ) l’esplicazione della propria personalità.
A tale necessità possono essere riferiti non solo i principi fondamentali sanciti nella prima parte della nostra carta costituzionale ( innanzitutto con riferimento all’importanza del diritto al lavoro e ai diritti inviolabili dell’uomo ), ma anche le direttive previste dalla seconda parte del testo costituzionale in materia di pubblica amministrazione, ad iniziare dal principio che prescrive il necessario buon andamento della stessa, in ultima analisi, finalizzato, appunto, alla soddisfazione delle persone fisiche che di tale buon andamento beneficiano.
Sotto quest’ultimo profilo, inoltre, non si possono non ricordare i frequenti – soprattutto in questi ultimi tempi – richiami all’esigenza di una P.A. efficiente e capace di venire incontro anche alle necessità non solo del mondo imprenditoriale affinché tutto il “ sistema Italia ” funzioni[61].
Richiami che provengono non solo dal mondo politico, ma anche, e soprattutto, dalle parti sociali e, quindi, in definitiva, da tutta la società.
Sicché pare necessario porre le questioni fin qui, sia pure sommariamente, affrontate in altri – forse - più esatti termini.
22.1. I termini del nuovo bilanciamento da ricercare.
I termini in questione paiono poter essere individuati in quelli per cui deve valutarsi negativamente la menzionata – riscontrata - tendenza alla stabilizzazione nell’ambito del pubblico impiego soltanto nei limiti in cui essa viene ad essere auspicata - quando non attuata – senza prevedere meccanismi meritocratici, in quanto tali capaci di rispondere all’esigenza di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa pubblica sul piano oltre che giuridico, sociale ed etico.
Deve ritenersi che anche la solidarietà debba fare i conti con il “ principio di efficienza ” e con questo essere contemperato.
Le criticità e fragilità che colpiscono significative fasce di lavoratori pubblici precari non devono essere considerate in sé, né affrontate con spirito paternalistico, ma piuttosto deve ritenersi che debbano essere analizzate e risolte all’interno di un’azione di più ampio spettro, finalizzata a garantire la coesione sociale intesa, però, anche come condizione di sviluppo.
Lo sforzo, sia degli individui singolarmente considerati che della comunità, deve, pertanto, orientarsi verso investimenti “ competitivi ”.
Peraltro, occorre osservare che Gino Giugni, già circa trenta anni fa, qualche anno dopo l’emanazione dello “ Statuto dei lavoratori ” di cui è ritenuto padre, rappresentava l’esigenza di conciliare la protezione del lavoratore con la necessità di tutela anche dell’organizzazione dell’impresa, ora - deve ritenersi anche – pubblica.
23. La flessibilità nel pubblico impiego : da sinonimo solo di lavoro precario ad auspicata “ esperienza – in quanto spendibile - da rivendere ”.
Alla luce dei menzionati confini sovranazionali e comunitari dell’attuale lavoro flessibile, pertanto, la scelta obbligata pare essere quella – non di subire – ma di affrontare in termini pragmatici e costruttivi l’attuale lavoro ( almeno nella fase iniziale del percorso professionale, quasi sempre ) precario.
Importante, invero, appare accettare la flessibilità del lavoro non come un dato di fatto incontrovertibile ed immutabile nel medio e lungo termine, intendendo con tale dimensione temporale un lasso temporale più breve dell’intera vita lavorativa di ogni singola persona.
Dunque, preoccuparsi sì delle conseguenze del lavoro precario sulle condizioni reali delle persone, ma una volta considerate queste impegnarsi affinché esse siano ridotte, riducendo i tempi del precariato e, comunque, costruendo degli strumenti che consentano di vedere l’attuale ( quasi necessario ) lavoro a termine come una fase transitoria verso un impiego stabile e, soprattutto, come un momento di investimento sulla propria persona e sul proprio futuro lavoro.
Questo, comunque, contemperando tali esigenze di “ liberazione dell’uomo ” ( in quanto lavoratore ) con quelle di efficienza, efficacia e produttività del datore di lavoro anche pubblico.
Sicché l’obiettivo finale sarebbe quello di delineare meccanismi – siano essi di matrice esclusivamente normativa o, come auspicabile, anche, più specificatamente, contrattuale – che consentano non solo che la precarietà non sia “ per sempre ” ma anche che il superamento della medesima serva pure per dare efficienza al sistema, compreso quello pubblico.
23.1. Rendere, realmente, incentivante il lavoro temporaneo anche per il lavoratore ( pure pubblico ) al quale la flessibilità viene richiesta.
Tutte queste considerazioni, dunque, conducono a prevedere dei meccanismi che consentano di “ spendere ” – anche a beneficio del datore di lavoro – la competenza acquisita dal lavoratore temporaneo ( e, in quanto tale, flessibile ) in una nuova opportunità di lavoro, possibilmente, più stabile dal punto di vista della relativa durata.
Meccanismi che, allo stato, a livello di struttura non sono assolutamente riscontrabili nell’impiego che delle forme di lavoro flessibili si effettua nel lavoro pubblico, mentre, nell’ambito di quello privato, sono riscontrabili soltanto con riferimento ai contratti di formazione di lavoro, di apprendistato e di inserimento[62]
Si tratta, dunque, di prevedere dei correttivi all’attuale regolamentazione del lavoro flessibile.
Correttivi che, andando ancora oltre rispetto a quanto già consentito dai contratti di formazione e lavoro, apprendistato e inserimento eventualmente stipulati alle dipendenze di un datore di lavoro privato, conducano, quale primo obiettivo, alla stabilizzazione del lavoratore formato presso il datore professionalizzante.
Oppure correttivi che diano luogo ad un credito non solo formativo ma anche lavorativo immediatamente e realisticamente spendibile nel mercato del lavoro, quale potrebbe essere, ad esempio, la qualifica professionale, a prescindere dalla relativa stabilizzazione, eventualmente riconosciuta al lavoratore impiegato nell’ambito di un rapporto di lavoro flessibile.
Con riferimento al settore pubblico occorre, dunque, prevedere tali meccanismi ex novo in un’ottica “ premiale ” ( sia per il lavoratore formatosi che per il datore professionalizzante ).
In relazione al settore privato, invece, si tratta di prevedere siffatti meccanismi “ premiali ” non soltanto ( e – se possibile - in maniera più efficace di quanto già avviene ) con riferimento ai contratti di formazione e lavoro, di inserimento e di apprendistato menzionati.
In tale contesto occorre tenere presente e ricordare che, mentre nel privato nulla impedisce al datore di lavoro di stabilizzare “ in qualsiasi momento ” il lavoratore temporaneo che eventualmente dovesse aver conquistato la sua fiducia, questo non può avvenire nel pubblico impiego per effetto della regola del pubblico concorso più volte menzionata.
Per cui è soprattutto con riferimento al lavoro pubblico a termine che si dovrà lavorare al fine di eliminare o - quanto meno - ridurre e contenere in termini ragionevoli il fenomeno della precarietà, oltre che per conseguire l’altrettanto importante obiettivo – per l’intera societas e, quindi, pure per tutti i soggetti privati - di una P.A. efficiente.
23.2. L’auspicata interscambialità tra pubblico e privato delle esperienze professionali maturate e il precedente - con riferimento ai dirigenti - della legge n. 145 del 2002, c.d. Frattini.
L’ideale sarebbe l’individuazione di meccanismi che consentano di “ valorizzare ” l’esperienza flessibile pubblica anche nell’ambito del lavoro privato, quando non anche - almeno nell’imminente futuro – il contrario, considerate le distanze che ancora permangono tra i due settori.
Quanto appena detto potrebbe fornire un’ulteriore applicazione concreta alla commistione tra pubblico e privato sempre più pretesa dalla societas e a livello legislativo già prevista dalla legge c.d. Frattini n. 145 del 2002 recante “ disposizioni per il riordino della dirigenza statale e ( n.d.r. : appunto ) per favorire lo scambio di esperienze e l interazione tra pubblico e privato ” nell’ottica di una ormai – quasi - irrinunciabile considerazione della P.A. quale azienda, seppure eventualmente no profit.
23.3. Il lavoro flessibile quale “ formazione sul campo ” del lavoratore anche pubblico.
Procedendo nel senso menzionato troverebbe attuazione pratica anche la “ formazione del personale ” – pure pubblico - tanto sollecitata e richiesta dalla c.d. società civile.
Quest’ultima, invero, è divenuta consapevole del fatto che la formazione ormai riguarda tutti i ruoli di qualsiasi organizzazione che punta al raggiungimento di obiettivi quali l’economicità e, nel contempo, qualità del servizio fornito all’utente e, quindi, anche della pubblica amministrazione.
Poiché il raggiungimento della competenza, intesa come associazione di conoscenze, capacità e atteggiamenti costituisce un traguardo che riguarda l’unitarietà della persona e che, come tale, deve essere perseguito intervenendo su molteplici aspetti, seguendo un modello di gestione delle conoscenze non solo razionale ma anche emotivo, quanto detto riguardo alla rimodulazione dell’odierna flessibilità in una nuova seria auspicata ottica premiale o, comunque, incentivante può costituire un’ottima strategia di gestione del personale da parte delle PP.AA., solitamente e tradizionalmente “ ingessate ” e “ ingabbiate ” anche sotto questo profilo dalle varie formalità che – quando non costituiscono ( e vengono percepite dal lavoratore ) come effettive garanzie - rendono il lavoro pubblico demotivante.
23.4. L’assenza di una garanzia espressa al lavoro stabile nella nostra carta costituzionale.
E’ stato, peraltro, rilevato[63] come la nostra carta costituzionale non contenga alcuna espressa garanzia del lavoro stabile, piuttosto essa affermando l’esistenza di un diritto al lavoro sulla base di una norma programmatica inserita, ad ogni modo, tra i “ principi fondamentali ” del nostro ordinamento[64].
Tuttavia, l’esistenza di una simile garanzia non può essere esclusa alla luce della necessaria lettura sistematica del dettato costituzionale, complessivamente considerato.
Dettato costituzionale che, così complessivamente interpretato, può però prestarsi anche ad una conclusione nel senso della compatibilità con esso di un lavoro comunque garantito all’uomo, anche se non in forma stabile.
Invero, se a favore di un lavoro stabile opera una lettura dell’articolo 4 della Costituzione che tenga conto soprattutto del valore di principio fondamentale attribuito al diritto sancito da tale norma, nel senso della possibilità di soddisfazione del diritto in questione anche da parte di un lavoro non “ fisso ” depongono tutta una serie di altri indici desumili dal testo costituzionale, a cominciare, con riferimento al settore privato, dalla libertà di impresa e di iniziativa economica sancita dall’art. 41 Cost. e, in relazione al settore pubblico, dal principio che impone il buon andamento della pubblica amministrazione.
24. La necessità della previsione di un percorso verso la stabilità nell’interesse di entrambe le parti interessate dal rapporto di pubblico impiego.
La previsione di un percorso verso la stabilità, oltre a dare soddisfazione alle istanze sociali di stabilizzazione più volte menzionate, potrebbe, se opportunamente modulato, giovare pure alla parte datoriale pubblica e, quindi, in ultima analisi alla collettività – da tutti noi rappresentata – che fruisce dei servizi erogati dalla P.A., attribuendo, pertanto a tale sentiero una valenza, sotto tutti gli aspetti, sociale.
In particolare, verrebbe eliminato – se non, quanto meno, attenuato - il paradosso del fenomeno ( effetto dell’attuale configurazione e regolamentazione del lavoro flessibile ) che impedisce nei fatti alle Pubbliche Amministrazioni di potersi avvalere, in relazione alle proprie esigenze di personale, delle risorse umane - peraltro, immediatamente disponibili – dalle stesse formate ed inserite, seppure temporaneamente, nell’ambito delle proprie organizzazioni attraverso il ricorso alle forme di lavoro flessibile.
Ciò in quanto le competenze acquisite dal personale “ temporaneo ” delle PP.AA. vengono meno, per l’organizzazione pubblica, una volta che il relativo rapporto di lavoro si interrompe e, pertanto - considerata la durata, appunto, “ temporanea ”, del lavoro flessibile nelle amministrazioni pubbliche - proprio appena le medesime ( competenze ) – vengono ad essere acquisite.
24.1. Evitare, nell’ottica della previsione di un percorso di stabilizzazione meritocratica-premiale, di ricorrere al lavoro temporaneo come politica di gestione del personale e, quindi, al precariato “ stabile ”.
Affinché la prospettiva di un impiego stabile possa costituire, come auspicato, un fattore di motivazione e formazione del lavoratore inizialmente - e quasi necessariamente nell’attuale difficile epoca – flessibilmente impiegato occorre evitare che le forme di lavoro ( compreso quello pubblico ) temporaneo vengano reiteratemente e illimitatamente utilizzate nei confronti dello stesso lavoratore.
Peraltro, una politica di gestione del personale impostata nei suddetti termini o, comunque, accettante i medesimi, oltre ad essere eticamente priva di qualsiasi giustificazione e giuridicamente senza nessuna ratio degna di essere considerata tale, potrebbe dar luogo ad un “ cannibalismo sociale ” certamente non augurabile.
24.2. La futura legislazione sul lavoro pubblico a termine quale auspicato meccanismo di feedback sull’efficienza del pubblico impiego.
Le degenerazioni cui potrebbe condurre la flessibilità non devono portare a disconoscere la possibilità che il lavoro flessibile possa essere utilizzato nel settore pubblico come meccanismo di feedback sullo stato del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.
Difatti, il tradizionale percorso “ bottom up ” in virtù del quale la regolazione viene concepita come una sorta di razionalizzazione e assestamento di esigenze già concretizzatesi, potrebbe, con riferimento al pubblico impiego, essere invertito fino ad assumere uno sviluppo di tipo “ top-down ” nell’ambito del quale inserire e utilizzare anche l’auspicata futura legislazione, modulata in chiave premiale, sul lavoro a termine.
Già si è detto, infatti, come non irrealistico appaia ritenere che, anche in ambito pubblicistico, la flessibilità sia destinata a diventare un metodo di intervento per la riorganizzazione della macchina burocratica, la quale, come altresì detto, dovrà essere, al tempo stesso, efficace ed attenta alle problematiche occupazionali.